Poche cose hanno un potere evocativo, per gli appassionati italiani di armi Ex ordinanza, come il fucile modello 1891. E pochi fucili 1891 possono, senza ombra di dubbio, vantare un potere evocativo come quello che sparò, secondo la tradizione, il primo colpo italiano della prima guerra mondiale: la cosa interessante è che di tale fucile si è conservata non solo la memoria, ma anche il “corpo” in legno e metallo, che abbiamo potuto visionare, esaminare e fotografare grazie alla collaborazione del museo storico della guardia di finanza di Roma. È infatti la guardia di finanza a poter vantare la “primogenitura”, cioè lo sparo del primo colpo di fucile che ha sancito l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale. A prima vista può sembrare strano che non sia stato un reparto di fanteria (o ancor più di artiglieria) a fare il primo “bum” in direzione dell’Austria-Ungheria: occorre, però, considerare che per antica tradizione (la fondazione della gdf risale al 1774, regnante Vittorio Amedeo III di Savoia, sotto forma di una “legione truppe leggere”) ricade proprio sulla guardia di finanza la vigilanza dei confini nazionali, sia in funzione anti-contrabbando, sia in funzione di difesa più prettamente militare. Un ruolo talvolta oscuro, spesso svolto in condizioni davvero disagevoli dal punto di vista ambientale, che è giusto qui ricordare e valorizzare.
Il teatro della vicenda è il nostro confine orientale di allora, in quello che oggi è il Friuli-Venezia Giulia: una piccola frazione del paese di Corno di Rosazzo, cioè Visinale, affacciata sul torrente Judrio, linea naturale di demarcazione tra il regno d’Italia e l’impero austroungarico. Dall’altra parte c’è Brazzano, frazione di Cormons, che oggi è anch’essa in Italia, ma nel 1915 faceva, invece, parte a tutti gli effetti dell’impero dell’aquila bicipite. In mezzo, un ponte di legno, che in tempo di pace serviva a garantire i commerci tra le due monarchie.
La notte tra il 23 e il 24 maggio 1915, intorno alle 22,40 (23,40 secondo altre fonti), prevedendo l’arrivo delle truppe sabaude (la dichiarazione di guerra era stata consegnata all’ambasciatore austriaco il 22 maggio, con effetto dalle ore “zero” del 24), gli austriaci pensarono di “portarsi avanti” tagliando il collegamento esistente, cioè demolendo il ponte di legno. Una azione da commando, insomma, nella quale alcuni genieri si sarebbero dovuti infiltrare tra i piloni del ponte, minarli e far saltare in aria l’opera. In tal modo, le truppe italiane in avanzata avrebbero dovuto guadare il torrente, anziché semplicemente passare il ponte.
Il carattere strategico del manufatto non era evidentemente sconosciuto anche alle nostre autorità, visto che a presidio di esso furono posti, appunto, due finanzieri in forza al secondo battaglione: Pietro Dell’Acqua e Costantino Carta. I quali, come si diceva un tempo, “all’erta stavano” e, scorti i genieri austriaci nell’oscurità, aprirono prontamente il fuoco, mettendoli in fuga (secondo alcune fonti, con perdite). Il primo colpo in questa azione, ci è stato tramandato essere stato sparato dal finanziere Dell’Acqua. Il ponte fu salvato (consentendo successivamente il transito delle nostre truppe) e, la mattina seguente, sul posto furono recuperati i materiali necessari all’opera di demolizione, abbandonati in tutta fretta. Per questa azione, i due finanzieri furono insigniti di medaglia di bronzo al valor militare, con la seguente motivazione: “unitamente ad un compagno impediva con prontezza ed energia la distruzione di un ponte militare importante”. Da quella sera, cioè dalla sera della vigilia dell’ingresso ufficiale dell’Italia nella prima guerra mondiale, inizia la storia del fucile che presentiamo in questo articolo: il fatto di essere stato imbracciato dal finanziere Dell’Acqua mentre sparava il primo colpo italiano del conflitto lo ha reso indubbiamente unico ma… non subito! In effetti, sul momento c’era evidentemente altro a cui pensare e, probabilmente, nelle settimane iniziali del conflitto pesò anche la credenza di molti (nonostante quanto si stava già manifestando sui fronti europei) di trovarsi di fronte a una guerra-lampo, un affare da chiudere in poche settimane.
Solo a posteriori, con la pace, quando il conto della signora con la falce arrivò a quota 650 mila caduti in grigioverde, quando ci si rese conto di quale sacrificio avesse rappresentato la Grande (appunto) guerra per un giovane regno come quello d’Italia, allora cominciarono anche le opere (legittime e doverose, sia chiaro) di “santificazione” e celebrazione di tutto il celebrabile.
Ovviamente, il maggior impulso alla glorificazione degli eventi bellici, piccoli o grandi che fossero non importa, fu dato dall’avvento del fascismo, in chiave propagandistica e di promozione della formazione dello spirito nazionale e dell’amor di patria. Una delle iniziative più suggestive in questo senso fu senz’altro la scelta, la traslazione e la tumulazione delle spoglie del “milite ignoto” nel sacrario costituito al Vittoriano di Roma (inizialmente nella basilica di Santa Maria degli angeli e dei martiri), ma ancora oggi capita ai più, girando per i mille paesi e paesini della nostra splendida penisola, di imbattersi in lapidi, targhe e monumenti che ricordano i caduti del borgo, o il proclama della vittoria emanato dal generale Diaz, eccetera.
Paradossalmente sul presidio del ponte dello Judrio e sul fucile che “accese la miccia” della guerra 1915-18 (come noi siamo abituati a chiamarla), calò l’oblio per molti anni, finché, a partire dal 1934, i vertici della guardia di finanza non iniziarono a raccogliere cimeli e testimonianze in vista della fondazione del museo storico, che poi aprì effettivamente i battenti nel 1937. Nello stesso anno, il 24 maggio (ovviamente…), nella frazione di Visinale fu inaugurato un monumento celebrativo, alla presenza di sua altezza reale il duca d’Aosta e alla presenza di Dell’Acqua. Il monumento raffigurava un finanziere che punta il fucile verso il nemico, guidato alle spalle da una figura allegorica (secondo alcune interpretazioni l’Italia, secondo altre la vittoria), con l’epitaffio: “il primo colpo di fucile della grande guerra fu esploso da questo luogo la notte del XXIII maggio MCMXV. Il nemico mosso alla ruina del ponte scorsero, colpirono, fugarono due guardie di finanza, vedette insonni del confine, le più avanzate e le più sole sempre, perché questo è il comando, il giuramento, il premio”.
Lo stile è quello enfatico del Ventennio, oggi appare forse pomposo e retorico. Occorre anche considerare, però, che la vittoria nella grande guerra rappresentò per l’Italia il momento in cui, per una volta, fu possibile a un popolo bistrattato da secoli di credersi grande, uscire per un istante dallo stereotipo “pizza-mandolino”, ed essere orgogliosi, tutti insieme, di aver superato una prova così dura. Allora, forse, un po’ di enfasi poteva anche considerarsi giustificata… Grazie alla pronta collaborazione del museo storico della guardia di finanza, ci è stato possibile esaminare il fucile utilizzato da Pietro Dell’Acqua la fatidica notte del 23 maggio 1915. Per chi si chiedesse come sia stato possibile risalire all’arma in dotazione al singolo finanziere, ricordiamo che anche in un tempo in cui non c’erano computer e Internet, tutto veniva comunque registrato (tra l’altro, la matricola dell’arma figurava innanzi tutto sul libretto personale di ciascun soldato). L’arma, un ’91 Lungo (per i servizi d’istituto in tempo di pace la finanza aveva i moschetti per truppe speciali, ma in caso di mobilitazione bellica veniva assegnato il ’91 lungo, perché i finanzieri mobilitati dovevano essere dotati dello stesso armamento ed equipaggiamento delle truppe alpine), è contrassegnata dalla matricola I2485 e appare in ottime condizioni: il calcio presenta la stessa matricola della canna ed è presente persino la cinghia in cuoio regolamentare, del tipo largo a due bottoni. Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che dall’esame accurato dell’arma è risultato palese che del fucile originale sia rimasto, in pratica… lo spirito e poco più!
Prima di spiegare questa affermazione, occorre considerare un fatto fondamentale: anche ammettendo che il fucile in questione sia stato recuperato all’inizio dell’opera di raccolta dei reperti per dar vita al museo storico della guardia di finanza, quindi nel 1934, sarebbero comunque passati 19 anni da quella drammatica notte. Il che significa quattro anni di una delle guerre più monumentali e logoranti della storia, più varie ed eventuali. Più gli anni che, comunque, al 23 maggio 1915 l’arma aveva già sul groppone: sì, perché dalle informazioni oggi disponibili, risulta che il blocco matricolare con prefisso letterale “I” sia stato utilizzato dall’arsenale di Terni, udite udite, nel 1894.
Quindi, quando Dell’Acqua premette il grilletto per mettere in fuga gli austriaci, l’arma già aveva sul groppone 21 anni di vita: che possono voler dire tutto (campagna di Libia…) oppure niente (quattro lustri in rastrelliera). Considerando che già nel 1911 il buon Luigi Gucci nella sua opera Armi portatili, affermava con cognizione di causa, che una canna di ’91 poteva sopportare circa 4.000 colpi prima di essere in condizioni di fuori servizio, appare evidente che le probabilità che quello specifico ’91 del 1894 arrivasse al 1934 con la canna originale tutta d’un pezzo, erano pochine. Ed ecco perché, infatti, la canna in questione è contrassegnata sì Terni, ma porta la data del 1915 anziché quella del 1894.
I più attenti potranno notare che la faccetta di culatta sulla quale è impressa la matricola, presenta sotto la brunitura inequivocabili colpi di lima, che hanno obliterato una matricola precedente, sulla quale è stata poi apposta la fatidica “I2485”. Che cosa è successo, insomma? Semplicemente, che il fucile di Dell’Acqua ha sparato, e tanto: la canna originale si era, con tutta probabilità, usurata a tal punto da essere in condizioni di fuori servizio. Per questo motivo, durante la guerra o immediatamente dopo, quando gli arsenali militari hanno iniziato un lavoro monumentale di recupero e ripristino delle armi residuate dal conflitto, gli è stata applicata una canna appartenente a un fucile prodotto a Terni nel 1915, da rottamare per danni irreversibili alla cosiddetta culatta mobile (cioè quella che oggi si definisce “azione” o “carcassa”).
Possiamo affermare questo, proprio per il fatto che la matricola è quella del fucile del 1894 e non quella del fucile del 1915: infatti, la matricola non era relativa “alla canna”, ma “al fucile”. In altre parole, quando un fucile veniva demolito ma la canna era ancora utilizzabile, la si metteva da parte e si cancellava (con la lima) la matricola originaria, perché il fucile sul quale era montata, non esisteva più. Occorre considerare che la canna era la parte più preziosa del fucile, in quanto realizzata con acciai speciali (azione e otturatore, che ci crediate o no, erano in ferro, non in acciaio). Quando c’era un fucile con la canna ormai cotta, ma per il resto ancora utilizzabile, si rimuoveva la canna e si installava quella di ricambio (nuova, quando disponibile, o di riciclaggio, come appunto in questo caso), apponendovi sopra, quindi, la matricola dell’arma “riparabile” che si intendeva ripristinare. In questo modo, il fucile era formalmente il medesimo e risultava più semplice gestirlo a livello burocratico.
Anche la calciatura, pur provvista della medesima matricola punzonata sulla canna, non è più quella originale, ma è un ricambio montato in un momento successivo: possiamo affermare ciò in quanto la calciatura originale del 1894 doveva necessariamente portare impresso, sul lato sinistro della pala, anche il timbro a secco dell’arsenale di produzione, oltre alla fatidica matricola, timbro di cui non v’è traccia sul calcio in questione (anche in caso di carteggiature d’arsenale, una traccia resta sempre).
Dulcis in fundo, anche l’otturatore non è più quello originale, perché dalla morfologia costruttiva risulta di produzione posteriore al 1919 (seppur, sempre, proveniente dall’arsenale di Terni). A sancire l’avvenuto ricondizionamento, un piccolo punzone raffigurante una stella a cinque punte, impresso sulla scanalatura della codetta posteriore dell’azione. Dalla canna del fucile oggi conservato nel museo storico della guardia di finanza, non uscì il proiettile che mise in fuga gli austriaci nella notte del 23 maggio 1915, in vista del ponte sullo Judrio. Eppure, a tutti gli effetti, il fucile “è” quello usato da Dell’Acqua quella notte, e merita il proprio ruolo di simbolo della prima guerra mondiale (e del sacrificio, spesso oscuro, della guardia di finanza nel presidio dei confini).
Più di tutto, ci preme sottolineare che il ’91 in questione è anche, anzi soprattutto, un diario della storia armiera del regio esercito, un registro fatto di legno e di ferro, e di acciaio, sul quale la vita, e la guerra, hanno lasciato i propri segni indelebili.
L'articolo completo è stato pubblicato su Armi e Tiro – maggio 2015