Il capo della polizia, Franco Gabrielli (in foto), ha incontrato il poliziotto che ha sventato la rapina a Guidonia, congratulandosi per il fatto che portava l'arma fuori servizio. Ma intanto, sulla vicenda si stanno palesando accuse e considerazioni assurde, sulle armi utilizzate dai rapinatori
Il capo della polizia, Franco Gabrielli (in foto), ha incontrato nel suo ufficio l’assistente capo della polizia di Stato che il 12 giugno scorso, fuori servizio, è intervenuto durante una rapina a mano armata a Guidonia, uccidendo uno dei malviventi e ferendone gravemente un secondo. Il capo della polizia, nel corso dell’incontro, ha manifestato vicinanza e sostegno al poliziotto per aver correttamente eseguito le direttive emanate dal dipartimento della Pubblica sicurezza all’indomani degli attentati di Parigi, che ribadiscono “l’importanza di portare sempre con se l’arma in dotazione”. A tal proposito, non possiamo fare a meno di sottolineare come al manifestarsi della stagione estiva, continuino a persistere gli evidenti problemi di occultabilità dell’arma d’ordinanza indossando abiti civili, e come continuino a essere in pratica inascoltate le istanze volte a consentire il porto fuori servizio agli appartenenti le forze dell’ordine di armi personali, più compatte e occultabili.
Il prefetto Gabrielli ha affermato anche che le strutture investigative della polizia di Stato stanno affiancando l’autorità giudiziaria nella ricostruzione della dinamica. La precisazione non è secondaria, visto che la procura di Tivoli ha (necessariamente) aperto una inchiesta per valutare l’accaduto ma, a quanto sembra, dal semplice “atto dovuto” per ricostruire una dinamica che ha visto, comunque, un morto e un ferito grave, si sta apparentemente “scivolando” sul bizantinismo giuridico nei confronti del malcapitato poliziotto. Le fonti di informazione a oggi disponibili, infatti, cominciano a parlare dell’ipotesi di “eccesso colposo dell’uso legittimo delle armi” e c’è chi comincia a chiedersi (speriamo non gli inquirenti, perché sarebbe grave) se “il poliziotto avrebbe potuto sventare la rapina senza uccidere nessuno”, atteso il fatto che l’arma trovata in possesso dei rapinatori era un giocattolo e non un’arma vera.
A tal proposito, per quanto di nostra competenza, è doveroso fare alcune considerazioni: in primo luogo, l’articolo 5 della legge 110/75 stabilisce chiaramente che, ai fini del diritto penale, non c’è differenza alcuna se per delinquere si usa un’arma vera o un’arma finta: “Quando l’uso o il porto d’armi è previsto quale elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato, il reato stesso sussiste o è aggravato anche qualora si tratti di arma per uso scenico o di strumenti riproducenti armi la cui canna non sia occlusa a norma del quarto comma”. Di conseguenza, sia che i rapinatori fossero in possesso di una pistola vera, sia che fossero in possesso di un giocattolo, ai fini del diritto penale hanno commesso una rapina a mano armata e, quindi, operava pienamente la scriminante prevista dall’articolo 53 del codice penale (uso legittimo delle armi) che, infatti, prevede appunto che si possa far uso delle armi per impedire la consumazione del reato di rapina a mano armata.
Anche la Cassazione si è recentemente soffermata sulla questione, confermando (ovviamente) quanto fin qui esposto: la sentenza n. 16366 del 2016, infatti, afferma che “Si deve ritenere, infatti, che, ai fini della configurabilità dell’aggravante della minaccia commessa con armi nella commissione della rapina (art. 628 c.p., comma 3, n.1) o della estorsione ( art. 629 c.p., comma 2), ciò che conta è l’effetto intimidatorio che deriva sulla persona offesa dall’uso di un oggetto che abbia l’apparenza esteriore dell’arma, in quanto tale effetto intimidatorio è dipendente non dalla effettiva potenzialità offensiva dell’oggetto adoperato, ma dal fatto che esso abbia una fattezza del tutto corrispondente a quella dell’arma vera e propria (…) cosicché possa incutere il medesimo timore sulla persona offesa”.