Studenti di giornalismo, le inchieste non si fanno così! Raphaël Zanotti su La Stampa di oggi, 6 novembre, l’ha… sparata grossa. “Questa inchiesta nasce da un’anomalia, uno di quegli scarti capaci di rompere la routine e che spesso sono il segnale di un cambiamento in atto”: dunque il nostro ci presenta un’inchiesta, un’analisi giornalistica approfondita su “L’Italia che vuole sparare” a giudicare dal titolo. ”L’anomalia si chiama «licenza per armi». L’Italia non è l’America, dove chiunque può acquistare un fucile semiautomatico al supermercato sotto casa. L’uso delle armi è super controllato. Al di là di chi porta la divisa, sono pochissime le categorie che possono possedere, e ancora meno portarsi in giro, una pistola o un fucile”. “Eppure qualcosa è cambiato” rileva Raphaël e qui starebbe l’anomalia evidentemente sulle “categorie che possono possedere, e ancora meno portarsi in giro, una pistola o un fucile” oppure sul “supercontrollato” uso delle armi. Nulla di tutto questo: il giornalista si è accorto che “Il numero di licenze per armi è esploso”. Nel 2015 ne sono state rilasciate 1.265.484. Un’enormità se si considera che solo tre anni prima erano poco più di un milione (1.094.487 per la precisione)”. In tre anni quasi 171.000, per la precisione 170.999, licenze in più. Eppure Raphaël nel sommario scrive “quasi trecentomila autorizzazioni in più in appena tre anni”. Certo, fa il giornalista, mica il matematico, ma almeno le semplici sottrazioni…
E dunque ci aspettiamo che parta, quest’inchiesta. Due tabelle: che illustrano come tra il 2014 e il 2015 le licenze di armi per uso venatorio e per uso sportivo abbiano avuto incrementi rispettivamente del 12,4% e del 18,5%, suggestivamente (e surrettiziamente) a confronto con i morti per arma da fuoco in Europa. Subito dopo uno stralcio dalla relazione dell’attività Uits del 2015 del presidente, Obrist Ernfried citato per cognome e nome come all’anagrafe: «Alcuni mutamenti nella società legati a un nuovo sentimento dei cittadini di dotarsi del porto delle armi hanno consentito un significativo aumento delle attività relative all’addestramento al maneggio delle armi»: i mutamenti della società non sono bene identificabili, ma Raphaël non ha dubbi: “i cittadini si avvicinano alla disciplina del tiro perché saper maneggiare un’arma infonde sicurezza in un periodo in cui la percezione della propria insicurezza è alle stelle. Le polemiche sorte a seguito dell’uccisione di ladri da parte di proprietari di case e il fioccare di iniziative legislative per allargare i confini della legittima difesa, parlano da sole”. Ma quante uccisioni? Forse 3 in un anno? E le iniziative legislative che fioccano quante sono? Forse meno? E le numerose associazioni dei “proprietari di case” cosa fanno? Tacciono? Raphaël ne fa una questione di casta? Quelli in affitto di sicuro non si difendono…
Ed ecco un virgolettato che la dice lunga: «Perché l’uso per difesa personale non lo rilasciano mai. Per richiedere una licenza a uso venatorio o sportivo bastano pochi documenti facili da reperire, ma per richiedere una licenza per difesa personale è necessario un documento ulteriore: bisogna motivare la necessità. E finché sei qualcuno che gira con pietre preziose o fa lavori particolari che ti mettono in pericolo di vita, passa, ma quando sei un piccolo imprenditore come me, stringono la vite. E allora meglio avere un fucile in casa per uso venatorio. Magari a caccia non ci vai mai, ma se qualcuno tenta di entrare con la forza e mette in pericolo i tuoi familiari almeno sei preparato». E chi lo dice? Un “piccolo imprenditore vicentino che ha chiesto l’anonimato per spiegarci il meccanismo”…
Vabbe’ sentiamo una fonte più autorevole e meglio identificata? “Le questure, però, negano che sia per questo motivo che c’è stato l’aumento. A spiegare l’esplosione di tiratori e cacciatori sarebbe in realtà la normativa più stringente entrata in vigore nel 2013 e che ha costretto chiunque abbia un’arma in casa presentare un certificato medico che ne giustifichi il possesso. Invece di presentare un semplice certificato, però, dicono dalle questure, molti ne avrebbero approfittato per richiedere oppure rinnovare la propria licenza di armi”. E come spiega questa normativa più stringente il “nostro”: “Una stretta dopo gli ultimi episodi di uso di un’arma da parte di persone che magari erano in cura per disturbi mentali. All’epoca si era alzato un polverone mediatico”.
“È verosimile?”, si domanda ancora il giornalista de La Stampa che evidentemente non reputa le questure più autorevoli dell’imprenditore vicentino. “Sì, ma non ci sono dati per poter confermare questa tendenza e non si capisce perché, invece di un banale certificato, qualcuno dovrebbe intraprendere una pratica burocratica più complessa e costosa”. Già: una licenza di porto di fucile per uso caccia costa 173,16 euro all’anno di sole tasse di concessione governativa (e almeno altri 150 di altre tasse e bolli), senza contare il difficile esame per il primo rilascio e altre spese varie. Dunque perché uno dovrebbe spendere quei soldi? Il Porto di fucile per uso Tiro a volo praticamente è a costo zero. Per un’analisi più seria sui motivi della crescita del numero delle licenze vi rimandiamo a un articolo sul nostro sito.
Ma per Raphaël è ormai tutto chiaro: la licenza è comunque un escamotage per armarsi. Eventualmente cosa ci sarebbe di male non lo intravediamo. Forse i cittadini dovrebbero rifornirsi al mercato nero? Insomma voler difendere se stessi e i propri cari secondo la legge sarebbe l’anomalia. Perché l’Italia non è l’America. Per i reati o per gli omicidi “difensivi”? Non si sa. Raphaël ha perso di vista il punto.
Però prova (ancora?) ad approfondire. Cerca di rintracciare il numero di tesserini venatori rilasciati in Italia negli ultimi anni. Poi però afferma che “i cacciatori nel 2015 erano 579.252. Negli ultimi otto anni (l’ultimo dato ufficiale era quello Istat del 2007) sono calati di quasi un quarto”. Per la verità erano 1,7 milioni nel 1980, poi ci sono stati i referendum, i verdi, eccetera. “A fronte di questo tracollo, costante anno dopo anno, le licenze per uso caccia sono invece aumentate”. Raphaël non sa, non è tanto capace di fare un’inchiesta, ma presume. Non sa che per cacciare all’estero non occorre il tesserino, mescola i dati tra i tesserini e i cacciatori. “Stessa cosa si potrebbe dire per i tesserini sportivi”: esatto, e anche qui considera i soli tesserati Uits e Fitav che sono una piccola parte dei praticanti il tiro sportivo. Quindi, capre e cavoli, ma ormai l’escamotage (per Raphaël) è evidente. Gli italiani si fanno la licenza per detenere e trasportare le armi, mentre sarebbe opportuno ricordare che le prefetture e il ministero riducono le licenze di guardie giurate e per difesa personale a cifre irrisorie. “Per dirimere la questione bisognerebbe essere in possesso di un altro dato: il numero di armi vendute in Italia. Si potrebbe così calcolare quanti nuovi possessori di armi ci sono nel Paese. Ma ancor più che per i cacciatori, rintracciare il numero di fucili e pistole venduti ogni anno agli italiani è impossibile”. Se sapessimo quante armi si vendono in Italia potremmo sapere cosa? Sarebbe un dato interessante che le questure e il ministero dovrebbero conoscere, ma non ci direbbe un bel nulla: perché ci sono i collezionisti e perché gli sportivi e gli appassionati si comprano anche più di un’arma al mese, se possono. Almeno fino a quando potranno. Ma ecco l’esperto di turno, finalmente citato e virgolettato: «In Italia si conosce tutto. Se voglio sapere quanti televisori sono stati venduti nell’ultimo mese, lo so. Se voglio capire quante lavatrici sono state rottamate, lo so. Ma se si vuole sapere quante armi sono state vendute, è impossibile saperlo. Ovviamente non è che non ci siano i modi e le tecnologie, ogni arma è immatricolata e tracciata: se è per volontà politica che non si vuole rendere pubblico il dato sarebbe gravissimo. Il ministero dell’Interno non dichiara quante armi sono state vendute agli italiani e quello degli Esteri non dichiara quante ne vengono vendute ai Paesi stranieri». A parlare è Piergiulio Biatta, presidente dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere. È una onlus promossa da diverse realtà dell'associazionismo bresciano e nazionale e di singoli privati per diffondere la cultura della pace e offrire alla società civile informazioni di carattere scientifico circa la produzione e il commercio delle "armi leggere". Lo dice la Opal stessa sul suo sito. Opportuno precisare che le “armi leggere”, traduzione del termine “small arms” sono armi militari o per uso di polizia e non c’entrano con quelle sportive o per caccia di cui abbiamo parlato finora. Fuorviato da Biatta, forse l’unica fonte che Raphaël ha sentito al telefono, trovando tutto il resto in rete dal desk, si lancia poi sulle opacità delle transazioni di armi di cui sarebbero responsabili il Paese e la bresciana Beretta.
Ma ecco l’intera, concisa, conclusione di Zanotti, il nostro Raphaël, e della sua inchiesta: “La trasformazione che potrebbe essere in atto in Italia da Paese che vedeva il monopolio della forza negli uomini in divisa a Paese in cui i cittadini si armano per la propria sicurezza personale è molto delicata e non va presa sotto gamba. I dati pubblicati dal Guardian che ha analizzato le statistiche delle morti dovute alle armi da fuoco sono sconfortanti. L’Italia è a metà classifica in Europa per quel che riguarda la media di armi per cento abitanti (11,9), ma siamo maglia nera per quel che riguarda gli assassinii compiuti con armi da fuoco: 0,71 ogni 100.000 abitanti. Il nostro dato è di sicuro drogato dalla presenza massiccia delle organizzazioni criminali che usano armi spesso detenute illegalmente. Ma proprio questa peculiarità non fa altro che sottolineare il problema: che impatto avrebbe una liberalizzazione delle armi in un Paese come il nostro?”.
Dunque il pericolo è la liberalizzazione delle armi. Ma allora cosa c’entrano le licenze che crescono? Con le licenze si comprano armi legali, altrimenti che senso avrebbe farle? E le armi legali, come dice persino l’Opal, sono tutte tracciabili e denunciate. La liberalizzazione temuta da Raphaël potrebbe dipendere solo da eventuali nuovi leggi, ma negli ultimi anni si è invece assistito a continui inasprimenti. Se poi il “monopolio della forza negli uomini in divisa” sia venuto a scemare dipende forse dall’aumento di una certa criminalità diffusa e difficilmente controllabile, dalla quale è legittimo che i cittadini vogliano difendersi. Sui dati del Guardian, che risalgono al 2013, gravano purtroppo molti errori: vi sono ricompresi i suicidi, per esempio. Negli ultimi anni, in Italia, come nel resto di quasi tutto il continente europeo, il numero di morti per arma da fuoco è calato. Dal 2000 al 2011 il numero di vittime di armi da fuoco per centomila abitanti è diminuito di circa un terzo. E, secondo uno studio del Flemish peace institute risalente al 2013, il numero di morti ogni 100 mila abitanti dell’Italia è almeno la metà di Estonia, Francia, Croazia e Finlandia, ma comunque inferiore a quello di numerosi altri Paesi europei. Dove sta la verità? Senz’altro non su La Stampa. E, per cortesia, studenti di giornalismo d’Italia, non prendete spunto da Zanotti…