La seconda guerra mondiale è stata, indubbiamente, dominata dalle pistole mitragliatrici: sviluppate praticamente da tutti i Paesi belligeranti, sono state prodotte in milioni di esemplari e utilizzate su tutti i fronti di guerra, specialmente quando ci si trovava a dover risolvere un assalto (o una difesa…) con una elevata capacità di fuoco da esplicare in brevissimo tempo. L’Italia fu protagonista in questo campo della progettazione militare, innanzi tutto con il Mab 38A di produzione Beretta, affiancato poi da ulteriori e fortunate evoluzioni della specie. Anche altre aziende nazionali però, seppur con ritardo, si gettarono in questo promettente settore, dando vita a progetti estremamente interessanti e innovativi proprio nel momento più drammatico del conflitto, cioè in concomitanza con la tragica guerra civile. Una delle armi che maggiormente ha saputo rappresentare il simbolo della Repubblica sociale italiana e che ha sempre destato l’interesse e la curiosità degli appassionati è il Tz 45, arma per certi versi avveniristica da un punto di vista tecnico, per altri probabilmente carente da un punto di vista squisitamente costruttivo, sicuramente affascinante anche perché circondata ormai da decenni da una grande incertezza e frammentarietà delle informazioni disponibili su chi sia stato l’inventore, quale azienda l’abbia costruita, in quali quantitativi e a chi sia stata effettivamente distribuita. Probabilmente non si riuscirà mai a ricostruire con precisione tutti i passaggi, stante la dispersione della documentazione, ma l’emersione dalla nebbia del tempo di alcuni documenti, negli ultimi anni, ha consentito di espandere come mai prima d’ora la conoscenza su questo caposaldo della storia militare e armiera italiana. È giunto il momento, dunque, di provare a tirare le somme.
Tonon, Zorzoli, Giandoso
Per molti, forse troppi, anni una delle storie più accreditate è che l’arma fosse stata concepita e realizzata in piena Repubblica sociale da due parenti stretti, i fratelli Giandoso, che di nome di battesimo si pretendeva facessero Tonon e Zorzoli. In realtà, se è vero (come è vero) che gli artefici dell’arma furono probabilmente due, è altrettanto vero che questi due non erano assolutamente fratelli e che lo sviluppo dell’arma avvenne ben prima dell’8 settembre 1943. Tra l’altro, anche ammettendo che in qualche zona del Veneto potesse venire in mente a qualcuno di chiamare il figlio “Tonon”, è dura pensare che anche in tempi nei quali prosperavano i nomi di battesimo più fantasiosi, saltasse il ticchio a un genitore di battezzare “Zorzoli” il figlio, sia detto con tutto il dovuto rispetto…
Il punto d’origine della nostra storia è costituito da una piccola azienda torinese, denominata Samt (Società anonima meccanica torinese), con sede commerciale in via Monginevro 89 e officina nel paesino di Piossasco, a una ventina di chilometri a Ovest dal capoluogo piemontese. A capo di questa azienda figurava un certo Aldo Zorzoli, che i più vorrebbero essere figlio di un alto dirigente dell’epoca della Lancia, mentre invece pare che non vi fosse alcun legame di parentela diretto. Non è purtroppo chiaro quando la Samt abbia iniziato l’attività, atteso il fatto che negli archivi della Camera di commercio di Torino (che pure abbiamo consultati) non risultano fascicoli con questa denominazione. Di certo c’è che l’azienda risulta essersi aggiudicata almeno due contratti con l’esercito italiano, per la fornitura di lotti di pistole da segnalazione modello 1900, nel 1941 e nel 1943. Di conseguenza, è lecito supporre che la fondazione risalga quantomeno al 1940, se non prima. Ciò detto, nonostante l’azienda si stesse dedicando alla produzione di un’arma per certi versi agli antipodi (uno strumento monocolpo di concezione ottocentesca, realizzato mediante forgiature e aggiustaggi manuali), il titolare stava mettendo a punto un progetto relativo a una innovativa pistola mitragliatrice, realizzata mediante moderni criteri costruttivi per una rapida riproducibilità in grande serie e altrettanto grande economia di produzione. Di questa pistola mitragliatrice esiste un disegno, contrassegnato con il logo Samt e datato 26 giugno 1943: il disegno riproduce, in pratica, quella che sarà poi nota come Tz 45, già ben definita nelle linee generali e anche in molti dettagli, anche se vi saranno comunque piccole differenze rispetto alla effettiva produzione di serie. In questo disegno, riportato sul libro di Filippo Cappellano e Nicola Pignato Le armi della fanteria italiana (1919-1945), la denominazione è “Pistola-mitra Zorzoli” e non vi è traccia alcuna del contributo di Tonon. Il quale, tuttavia, non solo alla fine comparirà nell’acronimo che definisce il modello dell’arma, ma anzi è generalmente accreditato come uno degli effettivi artefici del progetto. Di certo c’è che Tonon non è il nome di battesimo o il nomignolo, bensì il cognome, di un tenente colonnello che durante la seconda guerra mondiale comandava la Sfare (Sezione della fabbrica d’armi del regio esercito) di Gardone Val Trompia (Bs). Come si fossero conosciuti e avessero iniziato a collaborare Tonon e Zorzoli non è dato saperlo: a nostro avviso, tuttavia, la ricostruzione più logica è che il progetto in sé fosse di Aldo Zorzoli ma che Tonon avesse contribuito in modo determinante a mettere a punto i processi di industrializzazione dell’arma (in pratica, come passare dal tavolo da disegno o dal prototipo realizzato a mano a una effettiva produzione in serie). A quanto sembra, le prime prove operative a fuoco con i prototipi furono svolte già nell’agosto del 1943, come riportato in una storica lettera pubblicata negli anni Settanta da una rivista di settore, scritta da Domenico Salza, stimato progettista Beretta nonché, anche, direttore del Banco nazionale di prova: in realtà Salza dà conto del fatto che le prove si svolsero a Piossasco, mentre nella documentazione trovata da Cappellano e Pignato si dà conto del fatto che almeno una “esibizione” valutativa, di sapore semi-ufficiale, fosse stata fatta al campo sperimentale di Furbara (Rm). Nonostante l’esercito italiano avesse già una pistola mitragliatrice (o meglio un moschetto automatico) d’ordinanza, cioè il Mab 38A, non è insolito che un progettista sottoponesse alle autorità militari un progetto alternativo, specialmente se riteneva che tale progetto avesse vantaggi operativi e costruttivi rispetto al “concorrente” già in distribuzione. Sia come sia, le vicissitudini politiche e militari precedenti e conseguenti all’8 settembre 1943 evidentemente bloccarono sul nascere il progetto che, però, il buon Zorzoli (e anche Tonon) era ben lungi dall’abbandonare.
Una volta costituitasi la Repubblica sociale italiana, nel Centro-Nord dell’Italia, è più che probabile che sia Zorzoli, sia Tonon si siano attivati per cercare comunque di trovare uno sbocco produttivo all’arma. Di certo c’è che nello stesso libro di Cappellano e Pignato si dà conto dell’esistenza di una relazione tecnica, della seconda metà del 1944, nella quale si magnificano le doti di questo progetto che, per la prima volta, viene nominato con una denominazione inedita, cioè Rtz 43. A questo punto, se “T” sta per “Tonon”, “Z” sappiamo che sta per “Zorzoli”, viene il dubbio di capire se alla lettera “R” corrisponda il cognome di un eventuale terzo artefice, rimasto sfortunatamente ignoto alla storia. Di certo c’è che, a sentire i suoi inventori, l’arma era davvero rivoluzionaria: “Gli studi che hanno portato alla realizzazione della pistola mitra Rtz 43 si sono verificati su 4 punti fondamentali, allo scopo di poter costruire un’arma che abbia: peso inferiore alle altre armi dello stesso tipo; prezzo inferiore alle altre armi dello stesso tipo; economia del materiale necessario alla costruzione; caratteristiche di tiro e volume di fuoco pari alle armi consimili”. Per quanto riguarda le capacità produttive, si sottolinea che “per la costruzione occorre solamente un peso di materiale greggio doppio del peso proprio dell’arma, mentre per la costruzione di ogni altra arma nazionale occorre un peso almeno 3 o 4 volte superiore al peso proprio. Quanto sopra è motivato dal fatto che le parti componenti il congegno sono di lamiera; copricanna di lamiera; leva arresto e tabulatore di acciaio trafilato; culatta di tubo e lamiera saldata; bocchetto di alluminio; otturatore di acciaio laminato; mentre la sola canna, il fondello, il calciolo e altri piccoli particolari sono ricavati dallo stampaggio”. Molto ottimistiche le prospettive relative alla produzione di massa: “la costruzione dell’arma può essere iniziata in serie entro 3 mesi dalla data dell’ordine con una produzione di 200-300 unità giornaliere in uno stabilimento impiegando 100-150 operai. Si fa presente, poiché presso l’Arsenale di Gardone V.T. attualmente occupato dalla O.T. (Organizzazione Todt, ndr) il macchinario è stato radunato in un vasto magazzino senza essere utilizzato, parte di detto sarebbe necessaria per la lavorazione delle canne e parte occorrente per l’attrezzatura. Inoltre, presso lo stesso arsenale esiste anche il materiale greggio che potrebbe essere utilizzato per la costruzione di 70.000-80.000 pistole mitra”.
Evidentemente, nonostante la produzione dei Mab da parte della Beretta fosse stata accelerata dalle autorità occupanti tedesche fino a raggiungere picchi di 30 mila esemplari al mese (mille al giorno) nella seconda metà del 1944, contro i 5 mila al mese del periodo ante-8 settembre, la fame di armi automatiche era ben lungi dall’essere placata, considerando anche le necessità delle truppe repubblicane e, dal giugno del 1944, delle costituende brigate nere, frutto della “militarizzazione” del partito fascista repubblicano voluta da Alessandro Pavolini e finalmente avallata da Mussolini. Ciò detto, evidentemente ai tedeschi non interessava riattivare le capacità produttive dell’arsenale di Gardone, quindi alla fine fu scelta come sede idonea per l’inizio della produzione l’officina di una azienda “terzista” che già collaborava con lo Sfare, cioè la G. Giandoso e figlio sita sempre in Gardone Val Trompia. Da documenti partigiani relativi alla produzione di armi e materiali bellici nell’Italia occupata, si tramanda il fatto che parte della produzione di quest’arma fosse assolta dalla Franchi, sempre di Gardone, e anche dalla Peverelli di Brescia. Per quanto riguarda la Franchi si dà conto del fatto che all’azienda sarebbero stati appaltati otturatori e carcasse, nulla si dice sulle altre due aziende. La Peverelli era un’officina artigianale molto piccola, quindi è difficile che potesse fornire pezzi di particolare complessità, forse le impugnature in legno o alcune minuterie. Il grosso è possibile che venisse effettuato alla Giandoso, e con “grosso” intendiamo principalmente l’operazione di rigatura delle canne, da effettuarsi, magari, con le brocciatrici provenienti dalla Sfare di Gardone. Ma quando, in realtà, sarebbe iniziata la produzione? La denominazione “Tz 45” dell’arma farebbe propendere che il tutto sia iniziato non prima dell’ultimo tragico anno di guerra, in realtà però esiste una prova documentale che situa in un momento sicuramente antecedente l’effettiva realizzazione in serie. La prova è costituita da un notiziario della Guardia nazionale repubblicana, datato 12 ottobre 1944, nel quale si riferisce che “Il 6 corrente, in Gardone Val Trompia, circa 40 banditi indossanti l’uniforme della Speer (forse si allude all’Organizzazione Todt, ndr) e della Gnr attaccavano la fabbrica d’armi Giandosio (sic), impossessandosi poi di 100 mitra e 4.000 cartucce. I banditi obbligavano sei operai della fabbrica a seguirli per il trasporto delle armi. Alle ore 4 del sette successivo gli operai rientravano al paese”. Da quanto esposto risulta quindi evidente che ai primi di ottobre del 1944, alla Giandoso si costruivano mitra e in azienda ce n’erano almeno 100 pronti per la consegna. Ciò nonostante, l’arma è passata alla storia come Tz 45 e, in effetti, tutti gli esemplari noti riportano la medesima indicazione sulla culatta, cioè “pistola – mitra Tz 45”.
Quante e a chi
Le fonti più diffuse e note danno conto di una produzione tra i cinque e i seimila esemplari. Per quanto è stato possibile appurare durante le nostre ricerche, la matricolazione è partita da 0001 in avanti, in serie continua. Gli esemplari “operativi” che abbiamo potuto esaminare avevano al massimo matricolazione di poco superiore a quattromila, siamo però riusciti a trovare immagini di un esemplare molto strano e probabilmente utilizzato nel dopoguerra come “dimostratore commerciale” da Zorzoli, con matricola 5187. A nostro avviso, quindi, la produzione effettiva si è posizionata appena oltre i 5 mila esemplari. Il che significa che, a fronte dei 2-300 esemplari al giorno millantati dagli inventori, in realtà l’effettiva produzione di serie è stata molto, molto più lenta, anche volendo accreditare un periodo produttivo compreso tra il 1° ottobre 1944 e il febbraio 1945. Anche ammettendo soli tre mesi di produzione, a 200 esemplari al giorno si arriva senza fatica a 18 mila. Quindi, evidentemente, nella realtà dei fatti complice scarsità di materie prime, bombardamenti, penuria di manodopera eccetera, in realtà è lecito supporre che la produzione media fosse intorno ai 20 esemplari al giorno, anziché 200.
Ma chi l’ha usato, poi, questo Tz? Noi non siamo riusciti a trovare immagini d’epoca che raffigurino truppe tedesche armate di Tz 45. D’altro canto, esistono e sono note immagini d’epoca che ritraggono il Tz nelle mani di truppe repubblicane, principalmente se non esclusivamente brigate nere. E poi, ovviamente, partigiani. Di conseguenza, è certo che almeno una parte della produzione sia finita in mani italiane. D’altro canto è anche vero che all’epoca sulla Repubblica sociale italiana, nella sostanza, comandavano i tedeschi, i quali è ben difficile che non abbiano preteso una aliquota della produzione. A conferma del fatto che la Giandoso possa essere stata “servitrice di due padroni”, è interessante riportare quanto scrisse il quotidiano La Stampa di Torino l’11 agosto del 1945, dando conto dell’arresto e conseguente denuncia di Aldo Zorzoli per collaborazionismo e addirittura per aver seviziato partigiani prigionieri: “Il noto industriale torinese, tecnico esperto e fascista ferventissimo, creò uno speciale tipo di “pistola-mitra”, la Tz 45, che mise subito a disposizione delle forze armate nazifasciste, vendendola ai repubblicani a lire 5.000 e ai tedeschi per 2.950. Migliaia di pistole-mitra uscirono dall’officina del Zorzoli, il quale incassava a tutto spiano banconote, senza curarsi che la sua invenzione fosse particolarmente contro i partigiani” (Marco Gasparini, Claudio Razeto, 1945: il giorno dopo la liberazione, Castelvecchi editore). Sarebbe interessante capire quale fosse il valore aggiunto nella fornitura ai repubblichini, che giustificasse praticamente il raddoppio del prezzo rispetto alla fornitura tedesca: probabilmente, la spiegazione è la più semplice, cioè che le brigate nere e in generale le forze armate della Rsi avevano una fame terrificante di armi ed erano disposte a pagare qualsiasi cifra per averle. Di certo c’è che, diversamente dalle armi prodotte dalla Beretta nello stesso periodo di tempo, i Tz 45 non sono normalmente contrassegnati con punzonature di collaudo e, di conseguenza, è difficile capire che strada dovessero prendere. Diciamo “normalmente” perché in realtà è capitato di riscontrare esemplari punzonati con il waffenamt, cioè il punzone di ispezione militare germanico caratterizzato dall’aquila stilizzata con il codice dell’ispettore. E, curiosamente, il codice è lo stesso (162) che si riscontra su alcune rare pistole Beretta 34 e 35 dello stesso periodo. Quindi è lecito pensare che almeno questi esemplari siano stati accettati e utilizzati dai tedeschi. Anche le truppe italiane, però, hanno lasciato tracce sui Tz 45: le più eclatanti sono rappresentate da un profondissimo timbro a fuoco sull’impugnatura in legno, riconducibile alla legione autonoma Ettore Muti; in altri casi (più numerosi), è stata riscontrata la scritta “Xa Mas” impressa con due o anche tre differenti “stili” sulla parte superiore del lato posteriore del calciolo. Esistono immagini di fine guerra relative all’impiego operativo da parte di marò della Decima del Tz 45. D’altro canto, non è possibile ipotizzare una falsificazione su armi da guerra che non sono mai, assolutamente mai, finite in mani “commerciali”, transitando direttamente dalle forze dell’ordine durante i classici ritrovamenti, alle teche dei musei. Esistono inoltre testimonianze scritte, seppur vaghe, che riconducono sicuramente all’impiego di pistole mitragliatrici alternative al classico Mab 38A. Una su tutte quella riportata nel libro Battaglione Lupo di Guido Bonvicini, edito dall’associazione culturale Italia. Nel libro sono riportate le testimonianze di molti ex combattenti del battaglione e in una di queste, relative al periodo di schieramento sull’argine del Po nell’aprile 1945, si riferisce: “Ci sistemiamo nei bunker e nelle postazioni, si istituiscono turni di guardia e di pattugliamento per le ore notturne. Ci muoviamo agili con le nuove divise estive color kaki e con l’armamento leggero di cui siamo dotati. I plotoni sono stati divisi in due squadre di otto uomini ciascuna, ogni squadra è suddivisa a sua volta in due nuclei di quattro uomini, un mitragliere, un portamunizioni e due fucilieri: tipica formazione per azioni di breve durata. I capisquadra sono armati con un nuovo tipo di mitra corto tutto in metallo, il mitragliatore è il solito Breda 30”. Ovviamente il “mitra corto” poteva essere anche un Fnab 43, ma sta di fatto che non sono allo stato noti Fnab 43 con l’indicazione Decima Mas, invece i Tz 45 sì!
Come è fatto
Da un punto di vista meccanico, l’arma è concettualmente simile a tutti i progetti suoi contemporanei e funziona pertanto con il principio della massa battente. Per sparare si arretra a fondo corsa l’otturatore, che sulla faccia anteriore porta un percussore integrale. L’otturatore resta armato, trattenuto dal dente di scatto. Premendo il grilletto l’otturatore scatta in chiusura, spinto dalla propria molla, camerando la cartuccia e percuotendo l’innesco. I gas di sparo spingono da un lato la palla lungo la canna, verso il suo bersaglio, dall’altro spingono sul bossolo costringendo l’otturatore ad arretrare, espellendolo. Il sistema è molto semplice e del tutto idoneo a “reggere” ritmi di tiro sostenuti, infatti nelle pause di tiro l’otturatore resta aperto e, di conseguenza, la cartuccia non si trova nella camera, bensì resta nel caricatore, al riparo dal rischio di autoaccensioni a causa delle temperature raggiunte dalla canna.
Il cuore del sistema è costituito dalla carcassa tubolare, alla quale sono collegate le altre componenti. La canna e il carter-astina copricanna sono fissati alla parte anteriore della carcassa tramite una ghiera filettata, la canna è dotata di un piolo di centraggio che fa riscontro con una apposita sede nella carcassa, a garanzia di un preciso posizionamento. Il carter-astina è costituito da due semigusci, che anteriormente sono vincolati a un collare che funge da punto di fissaggio anteriore per la cinghia. Ancor più avanti verso la volata si trova il supporto per il mirino, che è a piolo e avvitato, quindi in certa misura regolabile in altezza. Oltre il supporto per il mirino, prima della volata, sono praticati due intagli che hanno lo scopo di deviare verso l’alto parte dei gas di sparo, fungendo da pseudo-compensatore. Alle spalle della culatta della canna sono presenti il bocchettone del caricatore (sotto) e la finestra di espulsione: quest’ultima è rettangolare e posta a “ore 12”, ma in realtà l’espulsione è leggermente orientata verso sinistra grazie al disassamento di circa 10 gradi dell’estrattore rispetto all’asse mediano. Nel progetto iniziale, il bocchettone del caricatore era destinato a essere realizzato in fusione di alluminio, ma con anima in lamiera d’acciaio per evitare che l’attrito contro il corpo del caricatore durante l’inserimento e lo sfilamento ne causasse l’usura precoce. In realtà, secondo le indicazioni dell’inventore il bocchettone doveva anche poter ruotare intorno al proprio asse, al fine di sigillare l’apertura di alimentazione e di espulsione durante il trasporto. Sia i prototipi, sia gli esemplari di serie da noi osservati non consentono però alcun movimento al manicotto, che è bloccato in posizione fissa per mezzo di un grano. Si trovano con bocchettone del caricatore in alluminio gli esemplari fino a circa matricola 300, il “circa” è determinato dal fatto che esistono esemplari con matricola più bassa che nonostante ciò sono dotati già del bocchettone del caricatore di secondo tipo, cioè in lamiera stampata fissata alla carcassa mediante puntature elettriche o saldatura a filo. Il bocchettone, di un tipo o dell’altro, porta sia la leva a bilanciere per il ritegno del caricatore, sia una seconda leva a “L”, più grande, che ha lo scopo di bloccare l’otturatore se non è premuta intenzionalmente, cioè se non si impugna l’arma con entrambe le mani. Il Tz 45 è ritenuto essere il primo mitra di serie con una sicura automatica contro l’armamento inerziale dell’otturatore, vero flagello delle armi di questo genere circolanti durante la seconda guerra mondiale. In sostanza, se c’è un caricatore pieno nel bocchettone, facendo urtare con forza (per esempio con una caduta accidentale) il calcio dell’arma al suolo, per inerzia l’otturatore può arretrare, vincendo la forza della molla di recupero. Cessata la spinta inerziale, però, la molla si ridistenderà, riportando l’otturatore in chiusura che, quindi, sfilerà una cartuccia dal caricatore e la camererà, provocandone quindi l’accensione. In altre parole: in un mitra della seconda guerra mondiale, se non c’è un dispositivo di sicurezza che blocchi fisicamente l’otturatore, se l’arma cade o subisce un urto con una determinata angolazione, può partire un colpo o una raffica. Il che non è bello. Nel Mab 38A questo non può avvenire se la sicura manuale è inserita. Ma se si porta l’arma con la sicura disinserita, può succedere. Nel Tz 45, invece, questo non può accadere perché quando l’arma non è impugnata con entrambe le mani, la sicura automatica sul bocchettone del caricatore blocca fisicamente l’otturatore in chiusura e questo è un eccellente sistema di sicurezza. Per contro, la sicura impedisce lo sparo anche se l’otturatore è in posizione di apertura, però in tal caso produce un “effetto collaterale” poco simpatico: se si preme il grilletto senza impugnare il bocchettone, l’otturatore precedentemente armato scatta in avanti per pochi millimetri, e poi viene intercettato dalla sicura. Il punto è che però, se a quel punto si preme la sicura, l’otturatore finisce la sua corsa, provocando lo sparo anche se il grilletto non è premuto. Il che è poco simpatico.
L’impugnatura
L’impugnatura è costituita da un massello in legno sagomato, vincolata al carter che contiene il sistema di scatto e alla piastra che chiude posteriormente la carcassa, trattenendo la molla di recupero con il relativo guidamolla. Per la verità le molle sono due, montate in tandem tramite due corti spezzoni di guidamolla. Per poter estrarre le molle e l’otturatore per lo smontaggio, occorre sfilare un traversino, dotato di contro-traversino di sicurezza, posto nella parte anteriore del carter dello scatto e poi far scivolare verso il basso tutta l’impugnatura, premendo però nello stesso tempo il tappo reggi molla posteriore, in modo da farlo uscire dal proprio foro di tenuta sulla piastra. Il tappo contiene una molla a spirale molto corta e di forte spessore, che funge da ammortizzatore di fondo corsa per l’otturatore. Sui lati del carter dello scatto sono presenti due sedi tubolari che reggono il calciolo collassabile e lo mantengono in posizione tramite due ritegni a molla. Il calciolo ha due sole posizioni: completamente retratto, in tal caso la piastra di appoggio per la spalla si appoggia sulla parte posteriore dell’impugnatura consentendo di brandire comunque efficacemente l’arma; completamente esteso, consentendo quindi il tiro all’imbracciata, come una carabina. Il riferimento posteriore di mira è costituito da una diottra fissa.
L’arma è dotata anche di selettore di tiro, costituito da una leva sul lato destro che ha un arco di azionamento di circa 180 gradi. Quando la leva è tutta in avanti, l’arma è in sicura; quando la leva è tutta indietro, su “R”, l’arma spara a raffica; in posizione intermedia, su “I”, l’arma spara in semiauto. La selezione del tiro viene eseguita con grande semplicità agendo sulla corsa del grilletto, che ha disconnettore a scappamento; quando il selettore è su “I” (intermittente), il grilletto è libero per l’intera corsa, quindi dopo aver sganciato il dente di scatto e aver liberato l’otturatore, se si prosegue nella trazione si sgancia il grilletto dal dente di scatto che può risalire e riagganciare l’otturatore dopo lo sparo di un solo colpo; quando il selettore è su “R” (raffica), la corsa del grilletto è solo parziale, sufficiente a far abbassare il dente di scatto ma non a provocare lo sgancio del grilletto. Di conseguenza il dente di scatto resta abbassato e l’arma continua a sparare finché ci sono cartucce o finché non si interrompe la pressione sul grilletto. Un sistema molto semplice e razionale.
Pregi e difetti
Tra i pregi operativi dell’arma c’è senz’altro un ingombro inferiore a quello del Mab, sia in versione 38A, sia in versione 38/42 (venduto ai tedeschi in quantitativi importanti); la sicurezza d’uso è senz’altro rafforzata dalla presenza della sicura automatica sul bocchettone, anche se sono comunque necessarie accortezze nella sua gestione; l’arma è sufficientemente rustica, è composta da un numero di componenti tutto sommato limitato, è ben congegnata e anche abbastanza ergonomica; per contro, le lavorazioni nell’area critica della canna spesso e volentieri sono approssimative, il che determina inceppamenti; la ghiera di tenuta della canna e dell’astina copricanna è intagliata in modo da essere serrata mediante una apposita chiave ma, in realtà, con le sollecitazioni dello sparo spesso si allenta per conto proprio, consentendo la rimozione a mano e determinando l’insorgere di laschi e tolleranze deleteri all’affidabilità prima ancora che alla precisione. Inoltre, e se ci si pensa è l’aspetto più paradossale, il sistema di costruzione adottato risulta ancora troppo “raffinato” e “signorile” rispetto ad armi come lo Sten o il Pps 43 sovietico, facendo sì che l’arma sia ancora costosa e comunque ancora non riproducibile con grande rapidità.
L’articolo completo su Armi e Tiro di settembre 2018