Non si placa l’eco degli spari che sono risuonati alcuni giorni or sono a Rivarolo canavese, dove l’83enne Renzo Tarabella ha rivolto l’arma legalmente detenuta contro il figlio disabile, la moglie da tempo malata, i due vicini di casa proprietari dell’appartamento nel quale viveva, tentando poi senza successo di togliersi la vita.
Come è già accaduto in altre circostanze, l’uso di un’arma legalmente detenuta fa immediatamente divampare il dibattito, accortamente e prontamente fomentato dalle associazioni anti-armi. Così, in pochi giorni, si è passati dalla (tentata) criminalizzazione delle persone anziane in possesso di armi, al fatto che il Tarabella fosse ancora in possesso legale di un’arma malgrado, dopo decenni di puntuali rinnovi, avesse lasciato scadere il porto d’armi nel 2016 e da allora non avesse mai presentato il prescritto certificato medico di idoneità. Fatto che, tra l’altro, conferma che prima ancora di pensare (meglio, pretendere) iniziative di riforma in senso più restrittivo (preferibilmente, per alcuni, vessatorio) della normativa in materia di armi, già porterebbe benefici riuscire ad assicurare il rispetto delle norme esistenti. A questo proposito è appena il caso di ricordare che, diversamente da altre amministrazioni pubbliche (dalla previdenza alla motorizzazione, all’anagrafe e così via), il ministero dell’Interno e in particolare l’amministrazione della pubblica sicurezza sembrano rimaste le uniche “fortezze” nelle quali la digitalizzazione degli archivi e la condivisione in tempo reale delle informazioni relative alle caratteristiche dei singoli cittadini detentori di armi, non è partita neanche in forma embrionale. Il che comporta tutta una serie di sperequazioni, alle quali invece di porre rimedio con la forma più ovvia (cioè sostenendo la destinazione di risorse economiche per colmare questo gap) si ribatte con proposte deliranti e del tutto inutili (oltreché irrealizzabili) come quella di obbligare i cittadini a conservare le armi sportive nei poligoni.
Il dito nella piaga
La specifica questione di Rivarolo, tuttavia, scopre una piaga aperta che si tenta affannosamente, quanto maldestramente, di coprire con la classica cortina di fumo, ancora una volta rappresentata dalla diatriba sulla legale detenzione delle armi.
Ci stiamo riferendo in particolare alla piaga sociale della disabilità: o meglio, alla piaga sociale rappresentata dalla sostenibilità del disabile da parte delle famiglie italiane. Secondo uno studio Istat del 2019, sono oltre 3 milioni i disabili definiti “gravi” in Italia (oltre 13 milioni i disabili in generale), 600 mila dei quali vivono una condizione di “grave isolamento”. Disabilità, fisiche o mentali, che vengono in massima parte gestite e sostenute dalla sfera famigliare, quindi particolarmente dai genitori. Genitori i quali, inevitabilmente, con il passare degli anni invecchiano e sentono venir meno le forze (fisiche e mentali) necessarie per accudire il loro caro, di pari passo con il crescere dell’angoscia su cosa avverrà dopo la loro morte e chi mai si prenderà cura, con amore, del disabile. La legge 112 del 2016, denominata non casualmente “dopo di noi”, ha rappresentato un forte punto di rottura, in positivo, rispetto al passato, ma sono ancora molteplici le criticità insite nella concretizzazione di una assistenza post-genitoriale per il disabile. Specialmente per coloro i quali non hanno avuto la possibilità (come previsto dalla legge 112) di destinare, in vita, fondi vincolati per il mantenimento del disabile in un contesto quanto più simile possibile a quello famigliare.
Così, a voler dare un’occhiata anche superficiale alla cronaca degli ultimi anni, si scopre che gli omicidi-suicidio del disabile e della relativa sfera famigliare sono una drammatica emergenza sociale, ma si scopre anche, purtroppo (giacché sarebbe facile rimediarvi, altrimenti) che vengono perpetrate con i più variegati mezzi offensivi, che vanno dal sacchetto di plastica per soffocare, al martello, al coltello e così via.
Come accade per i femminicidi, puntare i riflettori sui casi nei quali si verifica la tragedia in presenza di un’arma legalmente detenuta è sicuramente la via più facile. La domanda che occorre porsi è se sia anche la via più corretta per contribuire a risolvere un grave (ma soprattutto complesso) problema sociale, o se non sia invece un espediente per lavarsi collettivamente la coscienza, lasciando i disabili e i loro genitori abbandonati a se stessi.