Le armi clandestine sono disciplinate con particolare attenzione dal Legislatore che oltre a dedicarne una specifica definizione all’art. 23 della legge 110/1975, ivi prevede una serie di fattispecie criminose atte a evitarne in senso lato la circolazione.
A seguito dell’abrogazione dell’art. 7 della 110/75 a opera della lg. 183/2011 (la quale ha soppresso il catalogo nazionale delle armi), si è in presenza di un’arma clandestina nei casi in cui “non è possibile l’immediata, pronta e diretta riconoscibilità di un’arma per alterazione di uno dei dati identificativi individuati dall’art. 11 della legge n. 110 del 1975, tra i quali è espressamente indicato il numero di matricola” (Tribunale Foggia, 20/03/2014 ed. in Dig. Disc. Pen. Ed. 2020).
Ricostruita in tal modo la definizione, deve precisarsi che i reati previsti dall’art. 23 citato, sono configurabili esclusivamente con riguardo alle armi comuni e non alle armi da guerra, in quanto queste ultime non sono ricomprese nell’elenco di cui al comma 1 della disposizione da ultimo citata (Vedasi Cass. pen., Sez. I, 26/11/1991 e, più di recente, Tribunale Bari, Sez. I, 17/07/2014 ed. in Dig. Disc. Pen. Ed. 2020).
Al di là di tale precisazione, sono da evidenziarsi in giurisprudenza diversi esempi di interpretazioni latamente estensive del concetto di clandestinità. In particolare, si è affermata la natura di arma clandestina ex art. 23 cit. “di una pistola a salve, in quanto tale priva di matricola, artigianalmente trasformata in arma da sparo” (Cass. pen., Sez. III, 10/02/2011, n. 9286) nonché di un’arma comune con matricola parzialmente abrasa poiché “anche una parziale alterazione ricade sotto la previsione incriminatrice quando renda impossibile, incerta o difficoltosa la lettura anche di uno solo dei segni o delle cifre identificative, rimanendo insignificante la possibilità di ricostruire l’elemento mancante attraverso procedimenti scientifici.” (Cass. pen., Sez. I, 04/12/2001, n. 4471)
L’idea alla base del disvalore comune a tali reati è quella che la clandestinità comporti necessariamente il sorgere del pericolo di un uso a fini illeciti dell’arma e, proprio in tale prospettiva, non sorprende che, nella prassi, la condotta maggiormente oggetto di contestazione riguardi il porto e/o la detenzione di armi clandestine. Vi è da chiedersi, dunque, stante il preminente rilievo pratico di tali comportamenti, quali siano i reati concretamente applicabili.
Sul punto, in giurisprudenza, si è messo in dubbio che l’art. 23 cit. sia l’unico reato ascrivibile, ipotizzando il concorso formale con il reato di porto abusivo di arma comune, poiché sarebbe divergente sia l’interesse protetto dalle fattispecie, sia la condotta dell’agente rispettivamente incriminata (Cass. pen., Sez. I, 28/09/2011, n. 5567).
Più di recente, tuttavia, è prevalso l’orientamento restrittivo, accolto anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione secondo cui “i reati di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di un’arma clandestina – in virtù dell’operatività del principio di specialità – non possono concorrere, rispettivamente, con i reati di detenzione e porto illegale, in luogo pubblico o aperto al pubblico, della medesima arma comune da sparo” (Cass. pen., Sez. Unite, 22/06/2017, n. 41588).
Deve precisarsi che, anche dopo l’autorevole pronunciamento di cui sopra, il reo potrà essere chiamato a rispondere per entrambi i reati in concorso nei casi in cui alla detenzione o al porto illegale di un’arma comune da sparo segua, in una fase temporalmente successiva, l’alterazione materiale dei segni di riconoscimento dell’arma medesima.
Occorre, infine, valutare la possibile sussistenza del reato di ricettazione. In proposito, deve rilevarsi, pur con notevoli perplessità, che la giurisprudenza prevalente adotta degli automatismi sanzionatori che lasciano non poche perplessità. Si è, infatti, di sovente affermato che la semplice detenzione di un’arma modificata nei propri segni distintivi determina “di per sé” la conoscenza in capo all’agente della provenienza delittuosa del bene e, quindi, determina il ricorrere degli elementi costitutivi previsti dall’art. 646 c.p. (Corte d’Appello Napoli, Sez. VII, 14/03/2013 e Corte d’Appello Milano, Sez. III, 19/05/2010 ed. in Dig. Disc. Pen. Ed. 2020)
È da ritenersi, al contrario, più condivisibile una diversa ricostruzione teorica sviluppatasi nella giurisprudenza di merito secondo cui “nel caso di possesso di un’arma clandestina, allorquando si individui semplicemente nella clandestinità dell’arma il sintomo di una non meglio specificata origine delittuosa e non siano precisati la natura ed il titolo del reato presupposto, deve escludersi la configurabilità del delitto di ricettazione” (Corte d’Appello Catania, Sez. I, 03/05/2004).
In conclusione, nel caso di detenzione e/o porto di arma clandestina è da ravvisarsi il possibile concorso tra gli specifici reati previsti, rispettivamente, per la detenzione dall’art. 23 co. 3 e per il porto dall’art. 23 co.4 lg. 110/1975 e la ricettazione ex art. 648 c.p. salvo il caso in cui si dimostri, alternativamente, la partecipazione del soggetto al reato presupposto (che può ben consistere nell’alterazione della matricola penalmente rilevante ex art. 23 co. 4 II parte) o, con presumibili e notevoli difficoltà, la mancata rappresentazione dell’origine delittuosa del bene.