È giunta alla ribalta delle cronache la vicenda grottesca di un cacciatore che, in occasione di un controllo domiciliare da parte dei carabinieri per la notifica di un provvedimento di divieto di detenzione delle armi legalmente detenute per “carenza dei requisiti”, si è visto denunciare perché, insieme alle armi da fuoco regolarmente detenute, sono stati rinvenuti “due pugnali e un coltello a serramanico”, dei quali, udite udite, il cacciatore “non era in grado di giustificare il possesso né tanto meno aveva fatto denuncia all’Autorità per la legale detenzione”.
Peccato che nelle foto a corredo del servizio giornalistico (riportato peraltro da due differenti testate locali), i misteriosi “pugnali” esibiti a favore di camera dagli operatori dell’Arma (neanche avessero trovato l’arsenale di Matteo Messina Denaro) altro non fossero che normali coltelli per caccia, in libera vendita in qualsiasi ferramenta, così come in qualsiasi ferramenta sono in vendita i coltelli a serramanico. È palese (anche se difficile da credere) l’inconsapevolezza dei militari relativamente alla topica presa, altrimenti ben difficilmente si sarebbero auto-esposti al pubblico ludibrio con tanto di foto celebrative. Così come, seppur sempre possibile, è difficile credere che i giornalisti abbiano a tal punto travisato le parole dei militari da inventare completamente una notizia falsa. Le foto (fornite dall’Arma) d’altronde sono lì, disponibili al pubblico.
Non ci interessa e non ci compete difendere la posizione del cacciatore rispetto alla sua capacità di detenere le sue armi da fuoco, o meno. È però il caso di ricordare che il divieto di detenzione armi non è una misura di tipo punitivo, bensì preventivo. Ed è anche il caso di dire che gli organi di informazione danno conto del fatto che le armi da fuoco sono state cedute a una terza persona, quindi non sono state oggetto di sequestro. Ergo, non sono state riscontrate irregolarità su di esse.
Allo stesso modo, non ci interessa specificare a quale stazione dei carabinieri appartengano i militari responsabili dell’operazione, né tantomeno fornire ulteriori dettagli utili all’identificazione della vicenda. Perché ciò che oggi hanno fatto i militari di quella stazione carabinieri, ieri lo hanno fatto i poliziotti di qualche commissariato, e altrettanto accadrà domani, in un qualsiasi punto del territorio nazionale. Ciò su cui vogliamo soffermare, ed è necessario evidenziare, è il “sistema”, cioè una ben precisa criticità che riguarda la farraginosità e scarsa leggibilità della normativa in materia di armi, una carenza di formazione da parte degli operatori delle forze dell’ordine che agiscono sul territorio, una generica e sempre più diffusa tendenza a non assumersi alcun tipo di responsabilità e, infine, una sostanziale ricaduta economica e sociale sul cittadino di determinate azioni compiute dalle stesse forze dell’ordine.
Procediamo per gradi
Procediamo per gradi: i coltelli sono coltelli, i pugnali sono pugnali. I primi appartengono alla specie degli “strumenti atti a offendere”, per i quali non è richiesta alcuna formalità per l’acquisto o la detenzione e il porto è consentito con giustificato motivo. I pugnali, secondo quanto previsto dall’articolo 30 del Tulps e dall’articolo 45 del regolamento di esecuzione al Tulps, sono armi a tutti gli effetti, occorre il porto d’armi o il nulla osta per l’acquisto, bisogna denunciarne la detenzione e il porto non è consentito neanche a chi sia in possesso di un porto d’armi. Fa una bella differenza, quindi.
Partiamo da un altro presupposto: a un operatore delle forze dell’ordine che opera sul territorio, è richiesto di avere cognizioni relative ad armi, stupefacenti, codice della strada, primo soccorso, procedura penale e diecimila altre materie. Non è obiettivamente possibile ritenere che un soggetto normalmente in possesso di un diploma di scuola superiore, abbia le cognizioni approfondite che, spesso, sono richieste a laureati in legge con anni, se non decenni, di esperienza nelle specifiche materie. Questo ci è ben chiaro.
Ciò premesso, se è senz’altro possibile considerare, con tutta la buona volontà di questo mondo, scusabile che un carabiniere, o poliziotto, confonda un coltello sportivo da caccia, magari dal look particolarmente “aggressivo”, per un pugnale, riteniamo invece francamente impossibile che possa sussistere il dubbio su cosa possa essere, giuridicamente, un coltellino a serramanico. Non è possibile che il carabiniere in questione non abbia mai praticato attività all’aria aperta, o bricolage, o qualsiasi altra attività che comporti l’impiego di un coltellino a lama ripiegabile, o che mai abbia conosciuto qualcuno che ne faccia uso. Non è possibile che non ne abbia mai visto uno applicato in bella mostra sulle calamite dei pannelli espositori dei ferramenta. Abbiate pazienza, non è possibile credere una cosa del genere. Qui siamo oltre le barzellette sui carabinieri. Siamo alla fantascienza. E anche per i coltelli da caccia, comunque, basterebbe dare un’occhiatina su Amazon per vedere cosa c’è (legittimamente e legalmente) in vendita! E non ci si venga, per favore, a dire che “è un caso isolato” e “una rondine non fa primavera”, perché quello che abbiamo evidenziato è solo l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie molto numerosa di precedenti simili.
Siamo, quindi, al cospetto (purtroppo) del classico cliché del “io intanto ti denuncio e poi glielo spieghi al giudice”.
Accade infatti, sempre più spesso, che gli operatori che si trovano ad agire sul territorio, non si vogliano assumere la responsabilità di stabilire essi stessi se gli oggetti nei quali si imbattono nella loro attività quotidiana siano consentiti, vietati o consentiti con una regolamentazione specifica. Da qui, molto semplicemente, si verbalizza e si invia il tutto all’autorità giudiziaria.
A questo punto, verosimilmente, il cittadino (che si trova sul groppone una denuncia penale, con tutto ciò che rappresenta e consegue), dovrà assumere un avvocato, che magari per corroborare la propria azione difensiva riterrà di avvalersi di un consulente tecnico di parte, i quali dovranno spiegare a un giudice per l’udienza preliminare che un coltello è semplicemente un coltello e non si può denunciare un cittadino per ciò che a milioni si trova nelle case di tutti, ma proprio tutti, gli italiani, che viene venduto ogni giorno in decine di esemplari su Amazon Italia. Nel frattempo, il pubblico ministero avrà già (si spera) proposto istanza di archiviazione. O magari anche no, perché considerando gli operatori delle forze dell’ordine competenti in materia, presumerà che quanto da loro affermato corrisponda al vero.
Quindi, alla fine, mediamente dopo un paio di anni (ad andar bene, altrimenti se bisogna arrivare fino in Cassazione possono volercene dieci, di anni) e qualche migliaio di euro, il cittadino si sgrava del procedimento penale. Resta il piccolo interrogativo su chi, a questo punto, sia responsabile del pagamento della parcella dell’avvocato e del consulente tecnico di parte (parliamo, è opportuno ribadirlo, di migliaia di euro). Al di là dei casi previsti per il gratuito patrocinio (legati però a limiti di reddito per i quali neanche un operaio con famiglia a carico può accedervi), la risposta è semplice: le spese restano sul groppone al cittadino. Perché (altro cliché) “ti è andata bene. Per questa volta”.
Autorità e potere
La morale della favola qual è? Innanzi tutto, che c’è un problema: il problema è che all’Autorità di pubblica sicurezza, il nostro sistema giuridico attribuisce un potere enorme, che non è quello di assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica. Il potere, immenso, conferito dallo Stato è quello di gravare il cittadino di una condanna senza processo: la condanna al procedimento penale in sé, consistente in anni di tribolazione e migliaia di euro di spese legali. “Condanna” che, sia chiaro, è del tutto normale e giustificata nel momento in cui… il cittadino abbia fatto qualcosa per meritarsela! Ma il problema non è neanche quello: non è, cioè, che all’autorità di pubblica sicurezza sia dato il potere di denunciare chiunque con qualsiasi motivazione; il problema è che all’autorità è dato, nella sostanza, il potere di denunciare chiunque, pressoché impunemente, a prescindere dall’inconsistenza dell’accusa. Certo, esistono le fattispecie dell’abuso di atti d’ufficio e così via: ma sono casistiche che operano in contesti talmente gravi, e che richiedono presupposti di dolo o colpa talmente plateali, da risultare inapplicabili nella pratica. Né d’altro canto sono previsti risarcimenti dallo Stato per chi, accusato, sia stato prosciolto o assolto, salvi i casi di ingiusta detenzione in carcere (ma anche in quel caso, campa cavallo prima di vedere un centesimo).
Un altro aspetto, inquadrato in questa prospettiva, è abbastanza inquietante a volercisi soffermare sopra: la pubblica sicurezza fornisce annualmente statistiche sui quantitativi di persone denunciate e di armi sequestrate, non sono tuttavia previste analoghe statistiche su quante di quelle denunce e di quei sequestri, abbiano dato luogo a rinvio a giudizio e/o a condanna in primo grado. Il risultato è che, comunque, una massa di denunce e sequestri anche basati sul poco, o sul nulla, contribuisce a “fare statistica” e a far fare bella figura all’autorità di pubblica sicurezza, senza alcuna attività di controllo e verifica successiva. Questo è un fatto. E forse, in parte, spiega perché quando nel 2006 si cominciò a parlare di liberalizzazione delle armi bianche (da parte di un parlamentare di An), la voce contraria prima a levarsi fu quella del sindacato dei funzionari di polizia…
La contropartita di questa situazione dovrebbe, in un Paese che aspiri a definirsi civile e democratico, essere quella di un esercizio estremamente prudente e ragionato dell’azione penale in capo agli operatori sul territorio, giacché, è il caso di ricordarlo, una volta avviata, l’azione penale è “obbligatoria”, secondo il nostro sistema giuridico.
Quindi? Innanzi tutto sarebbe opportuno che fosse fornita una formazione vera agli operatori sul territorio, prevedendo se del caso specifiche unità specializzate per ciascuno dei principali e più importanti settori della pubblica sicurezza (come può essere la normativa in materia di armi). Sarebbe anche bello che chi è chiamato a prendersi determinate responsabilità sulle vite degli altri, lo facesse con la consapevolezza del proprio ruolo e, conseguentemente, un po’ meno “alla leggera”.
Concludiamo con una riflessione: a chi pensa che l’involontario protagonista di questa vicenda “se lo è cercato” e che “tanto a me non succederà mai”, è appena il caso di ricordare che un coltello (a serramanico o meno), è presente in TUTTE le case d’Italia…