Con lo sferragliante debutto, nei campi di battaglia della prima guerra mondiale, dei primi carri armati messi a punto dall’esercito britannico e poi dagli altri Paesi belligeranti, la guerra moderna entrò in una nuova era, quella dei mezzi corazzati. La loro principale caratteristica era quella di consentire lo spostamento relativamente rapido di centri di fuoco piuttosto potenti, normalmente costituiti da uno o più cannoni e svariate mitragliatrici, mantenendo però al contempo l’equipaggio e i serventi ai pezzi protetti dai colpi della fucileria e dalle schegge, grazie alla blindatura delle pareti. Giocoforza, quasi contestualmente all’invenzione del carro armato furono predisposti i primi mezzi di contrasto, ovvero le prime armi anticarro, che inizialmente altro non erano che normali cannoni od obici campali fatti sparare ad alzo zero. Furono i tedeschi, tuttavia, a concepire il primo strumento di nuova generazione devoluto alla lotta anticarro (e antiaerea, per buona misura), sotto forma di una mitragliatrice pesante destinata a sparare una cartuccia calibro 13 mm con proiettile dotato di una camiciatura in lega di rame e un nucleo perforante in acciaio temperato: era la cosiddetta “Tuf-Mg” (tank und flieger maschinegewehr) che, tuttavia, fu in pratica accantonata ancor prima di vedere una produzione di serie, constatando il troppo lungo periodo di sviluppo e messa a punto che sarebbe stato necessario. Con ammirevole spirito di realpolitik, si preferì conservare la cartuccia e utilizzarla in un fucile monocolpo con otturatore girevole-scorrevole, che la Mauser poté allestire in poche settimane e che è oggi noto come Tankgewehr o T-gewehr 1918. La fine del primo conflitto mondiale vide la sconfitta della Germania e in generale degli Imperi centrali, ma l’idea di un’arma portatile, tendenzialmente utilizzabile da una squadra di due uomini (un tiratore e un porta munizioni) o al limite anche, in emergenza, da un solo uomo, che potesse spostarsi rapidamente sulla linea del fronte in appoggio concreto alla squadra fucilieri di fanteria, nel contrasto della minaccia corazzata con una rapidità e prontezza di impiego superiore rispetto a qualsiasi cannone convenzionale, attecchì un po’ in tutta Europa e diede il via a un corposo lavoro di sviluppo che diede i suoi frutti a partire dalla metà degli anni Trenta.
Un fucile “segretissimo”
Quello di cui vogliamo parlarvi in questa circostanza è il risultato degli studi polacchi per la realizzazione di un fucile anticarro, noto come fucile Maroszek, dal nome del suo inventore, l’ingegner Josef Maroszek. La denominazione ufficiale dell’arma era invece Karabin przeciwpancerny wzór 35, il numero rappresenta ovviamente l’anno di adozione, il 1935. Ciò che ci ha spinto a descrivere quest’arma è il fatto che, nel panorama (invero piuttosto esiguo) dei fucili anticarro sviluppati nel periodo tra le due guerre, il Maroszek è in assoluto quello più somigliante a un “fucile” standard di fanteria, insieme al PzB 39 tedesco è uno dei fucili anticarro di calibro più piccolo (7,92 mm) ed è quello in assoluto dotato della più elevata velocità iniziale. Inoltre, è cosa poco nota ma ebbe un notevole impiego da parte delle truppe italiane impegnate in Africa settentrionale durante la seconda guerra mondiale, in particolare con la Folgore. Insomma, è un’arma “quasi” Ex ordinanza italiana e, tra le interpretazioni dell’archetipo meccanico Mauser, una delle più strane e inconsuete, insieme ovviamente al T-gewehr del 1918.
Lo sviluppo del progetto ebbe inizio fin dalla fine degli anni Venti del XX secolo, focalizzandosi fin dal principio sul piccolo calibro. All’inizio degli anni Trenta, alla Fabryka amunicji Skarzysko Kamienna, sita nell’omonima località, fu definitivamente appaltato lo sviluppo della cartuccia, che culminò con la messa a punto del calibro 7,92×107 mm Ds, che sarà poi il caricamento regolamentare impiegato dal fucile anticarro effettivamente adottato. Nello stesso momento in cui veniva allestito il munizionamento, all’ingegner Josef Maroszek fu dato l’incarico di progettare il fucile, per il quale il 1° agosto 1935 il comitato per gli armamenti e gli equipaggiamenti formulò una commessa ufficiale. I test a fuoco iniziarono in ottobre, l’adozione ufficiale fu disposta il 25 novembre 1935 e nel mese di dicembre fu avanzata la richiesta di consegna dei primi 5 esemplari di pre-serie, con 5.000 cartucce e una serie di canne di ricambio, per i test avanzati.
La necessità di disporre di canne di ricambio era determinata dal fatto che l’elevatissima velocità iniziale del proiettile, pari a 1.275 metri al secondo, comportava una rapida usura della rigatura, con conseguente decadimento delle prestazioni velocitarie già dopo soli 200 colpi sparati. Da qui la necessità di avere un set di canne di ricambio, con possibilità di sostituzione direttamente sul campo (anche se non a sgancio rapido). Dopo l’esito positivo dei test avanzati, condotti al centro di addestramento per la fanteria di Rembertów, il ministero della Difesa approvò la commessa per la fornitura di 7.610 fucili anticarro, da consegnare entro la fine del 1939. Non è attualmente noto con precisione quante di queste armi siano state effettivamente consegnate, la matricola dell’esemplare che abbiamo avuto la possibilità di fotografare (conservata nel museo d’artiglieria di Torino) è comunque vicina a 7.000, quindi si può supporre che la produzione sia stata soddisfatta quasi per intero.
L’intero progetto fu coperto dalla massima segretezza: nel corso dello sviluppo fu assegnato all’arma, tra gli altri, il nome in codice di “Uruguay” o “Ur 35”, stando con ciò a rappresentare che si trattasse di un’arma destinata all’esportazione. Anche con la distribuzione effettiva ai reparti, le armi erano consegnate in casse in legno sigillate contrassegnate dal divieto di aprirle (salvo con esplicito ordine superiore) e dalla sibillina descrizione del contenuto come “apparecchiature per la sorveglianza”. Solo nel luglio del 1939, presagendo evidentemente le mire espansionistiche tedesche, fu iniziato l’addestramento delle squadre anticarro in appositi campi riservati e ai militari coinvolti era richiesto di giurare di mantenere il segreto.
Le prestazioni balistiche erano tutto sommato abbastanza valide nei confronti dei veicoli blindati leggeri e, probabilmente, nei confronti dei cingoli dei carri medi del periodo di inizio seconda guerra mondiale, visto che veniva accreditata una capacità di perforazione di 15 millimetri di lamiera d’acciaio balistico alla distanza di 300 metri (con inclinazione fino a 30 gradi rispetto alla perpendicolare), che diventavano 33 mm alla distanza di 100 metri.
Con l’aggressione tedesca del territorio polacco, non fu comunque il Maroszek a fare la differenza e, dopo la definitiva conquista del Paese, le armi furono rastrellate e riciclate dalla Wehrmacht che provvide a fornire una nuova denominazione, cioè PzB 35 (p), ovvero panzerbuchse 35 polnisch, o fucile anticarro polacco modello 35. Successivamente, la denominazione fu modificata in PzB 770 (p).
Come è fatto
L’arma è semplicemente stupefacente, in quanto sembra un “normale” fucile Mauser 98 che qualche buontempone si sia divertito a raddoppiare nelle dimensioni generali e triplicare nella lunghezza. La canna da sola, in effetti, è lunga ben 1.200 millimetri, necessari a garantire la combustione dell’elevata carica di propellente, pari a 174 grani di nitrocellulosa in tubetti. La lunghezza totale dell’arma è di 1.760 millimetri. L’azione è, concettualmente, una “vera” Mauser, la quale accoglie un otturatore girevole-scorrevole con due tenoni frontali principali di chiusura e un terzo tenone ausiliario posto sul lato inferiore del cilindro, in corrispondenza del manubrio. Quest’ultimo è dritto, come sul Gewehr 98 della prima guerra mondiale e culmina con un classico pomo sferico liscio. La canna è avvitata sulla parte frontale dell’azione, sui lati del manicotto di culatta sono presenti due superfici piane contrapposte che dovevano intuitivamente agevolare lo svitamento per la sostituzione della canna quando quella originale fosse risultata eccessivamente usurata. Il sistema di ricambio della canna non era quindi di tipo “rapido”, poteva tuttavia essere effettuato anche in officine di reparto a ridosso della prima linea o, comunque, sul campo. La canna è rastremata e culmina in volata con un massiccio freno di bocca discoidale con due ampi sfiati laterali, che secondo le fonti da noi consultate aveva la capacità di dissipare oltre il 60 per cento dell’energia di rinculo, rendendo quest’ultimo non più violento di quello dato da un fucile Mauser standard in 8×57. Il che probabilmente spiega il motivo per il quale il calciolo è classicamente in ferro e non siano state predisposte contromisure come calcioli ammortizzati o in gomma e così via.
Come accade nel “vero” Mauser, anche nell’azione del Maroszek è presente un recoil lug integrale nella parte anteriore inferiore, che va ad appoggiare su un traversino prismatico in acciaio che attraversa la calciatura in legno appena oltre il vano di alimentazione. Le viti di tenuta dell’azione alla calciatura sono due, un anteriore che si innesta attraverso la piastrina del ponticello-vano di alimentazione e una posteriore che si innesta in direzione opposta, dalla codetta dell’azione. Le principali differenze rispetto all’azione Mauser sono rappresentate dal fatto che nel Maroszek il dente di scatto funge anche da ritegno dell’otturatore, quindi per sfilarlo per la pulizia è sufficiente premere il grilletto. Il percussore si arma con il movimento di chiusura dell’otturatore (quindi come sul P14 o sul Mauser 96 svedese), la coda del percussore è foggiata ad anello e funge anche da sicura manuale, arretrandola e ruotandola di 90 gradi.
Il calcio è in noce, con impugnatura a mezza pistola, l’astina giunge fino all’incirca al primo terzo di canna, il resto di quest’ultima è scoperto. È presente un copricanna sempre in noce, che anteriormente giunge pari con il puntale dell’astina e posteriormente giunge a ridosso della tacca di mira. Quest’ultima è veramente minimalista, con una piccola finestra a “U”, ricavata nello zoccolo di culatta della canna, a essa fa riscontro un mirino a lama innestato a coda di rondine sul manicotto del freno di bocca. Va comunque precisato che su un fucile destinato al tiro controcarri aveva tutto sommato poco senso un alzo regolabile, visto che la massima distanza utile di tiro era di soli 300 metri e, fino a tale distanza, la tensione di traiettoria del proiettile ultra-veloce non comportava alcuna apprezzabile caduta rispetto a 200 o 100 metri.
I fornimenti prevedono magliette porta cinghia sul lato inferiore della calciatura e un bipiede a compasso, incernierato all’estremità anteriore della calciatura, direttamente sulla canna. Il bipiede può essere portato, in posizione di riposo, con le gambe ripiegate in avanti e i due piedini presentano due scassi per incastrarsi sulla circonferenza della canna.
L’alimentazione è costituita da un caricatore amovibile monofilare della capacità di 4 cartucce. È singolare che su un’azione Mauser si sia scelto il caricatore monofilare, ma bisogna considerare, tenendo anche conto della lunghezza delle cartucce impiegate (131 mm), che in tal modo l’azione ha un diametro più contenuto, a tutto vantaggio del peso complessivo e anche della rigidità allo sparo. Per scongiurare lo sgancio accidentale, il caricatore è dotato di due leve a bilanciere indipendenti di ritegno, una davanti al caricatore, l’altra all’estremità posteriore, appena davanti al ponticello. Per evitare interferenze con quest’ultimo, la leva posteriore presenta una aletta che protrude dal lato destro. Se ne deduce che l’azione di sgancio fosse eseguita con la mano destra (indice sul ritegno anteriore, pollice su quello posteriore), mentre la sinistra afferrava il serbatoio. Per guidare in modo preciso e lineare il serbatoio all’interno del proprio alloggiamento nell’arma, sopra la piastra del ponticello è presente una intelaiatura in acciaio, fissata a incastro.
Il Maroszek e l’Italia
Fino all’entrata in guerra al fianco della Germania, l’Italia aveva palesato un interesse abbastanza scarso per i fucili controcarro, per lo scopo di contrastare i mezzi corazzati era stato adottato nel 1935 il cannone da 47/32, che già dava tutto sommato buone caratteristiche di mobilità sul campo di battaglia. Ciò nonostante, le esigenze belliche palesarono abbastanza in fretta la necessità di una importante aliquota di supporto per quanto riguarda le armi anticarro, necessità che fu inizialmente soddisfatta, almeno in parte, con l’acquisto dalla Svizzera dei fuciloni controcarro semiautomatico Solothurn S18-1000, denominati per l’occasione Fucile controcarro da 20 mm “S”. Il grosso vantaggio di quest’arma era l’impiego del medesimo munizionamento calibro 20×138 mm che era già in dotazione alle mitragliere Breda 35 e Scotti per l’impiego antiaereo, lo svantaggio era, comunque, un peso vicino ai 55 chilogrammi che richiedeva, per il trasporto, l’impiego di un carrello ruotato aggiuntivo. I tedeschi, comunque, oltre a cedere agli italiani 60 fucili Solothurn di preda bellica olandese da aggiungere agli acquisti diretti dalla Svizzera, rifornirono il nostro esercito con alcune centinaia di fucili Maroszek, che furono assegnati alla fanteria e alle unità paracadutisti operanti in Africa settentrionale con la denominazione di Fucile controcarri 35(P). Secondo quanto riportato nel libro Le armi della fanteria italiana 1919-1945 di Nicola Pignato e Filippo Cappellano, la fornitura iniziale da parte dei tedeschi fu di 250 esemplari (ciascuno con quattro canne), che salirono tuttavia fino a un complessivo di 588 entro l’aprile del 1943, con 3.900.000 cartucce. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, una aliquota di queste armi, sopravvissuta al crollo del fronte africano, fu requisita dai tedeschi che, curiosamente, le diedero la denominazione di PzB 770(i) anziché PzB 770(p), a rappresentare il fatto che l’origine dell’arma in tal caso era l’Italia e non la Polonia. Anche se, da un punto di vista balistico, si può dire che fosse già pressoché inutile per il tiro controcarri dopo il 1941, è stato tuttavia riscontrato l’impiego anche sul fronte italiano e in particolare sulla linea gotica, dove sono state recuperate le munizioni, di produzione tedesca.
Anche i finlandesi, alleati dei tedeschi, ricevettero un quantitativo modesto (sembra 30 esemplari) di fucili Maroszek, che furono utilizzati durante la guerra di continuazione ma, una volta constatata la scarsa efficaci nei confronti dei mezzi sovietici, relegati al compito di addestramento.
Ovviamente, con la conclusione del conflitto mondiale l’era dei fucili anticarro era definitivamente tramontata: il grosso della produzione di quest’arma, che ha sostenuto in pratica tutta la durata del conflitto, è risultata dispersa o distrutta sui fronti di guerra, oggi sopravvivono alcuni rari esemplari nei musei, a testimonianza di un concetto ardito e affascinante, nato però tuttavia già vecchio rispetto allo sviluppo tecnologico delle corazze dei veicoli.
Perforante o non perforante?
Uno dei denominatori comuni delle munizioni sviluppate dai vari Paesi europei per i fucili controcarro è che queste ultime sono dotate di un nucleo perforante in acciaio temperato o tungsteno o, per quanto riguarda il 20 mm, hanno tutto il corpo della granata realizzato in acciaio temperato. Questo perché, ovviamente, l’acciaio temperato e a maggior ragione in tungsteno possono vantare le migliori caratteristiche di perforazione nei confronti delle corazze in acciaio dei mezzi blindati. La cartuccia “Ds” del fucile Maroszek fa eccezione a questo concetto, impiega infatti un proiettile camiciato in ferro placcato al cupronichel con ogiva a sesto acuto e base piana, caratterizzato però da un nucleo in piombo semplice. L’elevatissima velocità iniziale, secondo le intenzioni dei progettisti, consentiva comunque una buona efficacia nei confronti delle corazze dei veicoli blindati e, anche nel caso in cui non si fosse riscontrato il completo attraversamento della lamiera, l’urto determinava il distacco di frammenti d’acciaio dal lato interno della lamiera, con conseguente proiezione violenta verso gli occupanti del mezzo. Inoltre, si era riscontrato che con questo tipo di proiettile l’efficacia nei confronti delle lamiere inclinate era superiore rispetto ai proiettili con nucleo in acciaio temperato o tungsteno, che tendevano a essere deviati più facilmente. La palla aveva una lunghezza di 34,4 millimetri e un peso di 198 grani, con la carica di 174 grani di nitrocellulosa in tubetti raggiungeva una velocità dichiarata (a canna nuova) di 1.275 metri al secondo, l’energia cinetica ammontava, rispettabilmente, a 10.322 joule, pari a 1.052 chilogrammetri.
Con l’invasione della Polonia da parte della Germania, al di là del pronto impossessamento da parte dell’occupante degli esemplari disponibili di fucili Maroszek e del munizionamento residuato dalla difesa dell’esercito polacco, fu deciso di proseguire l’allestimento del munizionamento, almeno fino al 1941: le cartucce prodotte sotto controllo tedesco sono, tuttavia, dotate di un proiettile perforante direttamente derivato da quello della cartuccia 7,92×94 “Patrone 318” già in servizio con i fucili anticarro PzB 39 tedeschi, caratterizzata dal nucleo perforante in tungsteno, tracciatore e capsula lacrimogena. Secondo alcune fonti si tratta esattamente del proiettile della Patrone 318, secondo altre tuttavia, il proiettile utilizzato per il caricamento delle munizioni destinate al fucile polacco, non era dotato della capsula di composto lacrimogeno della “Patrone 318”, forse già allora riconosciuta inutile. È nota in effetti una etichetta della confezione di munizioni nella quale la cartuccia viene definita “Pz.B. patr. 35(p) o. Rs”, dove “o. Rs” dovrebbe significare “ohne reizstoff”, ovvero “senza lacrimogeno”. Secondo le informazioni d’epoca, la capacità perforante del 7,92×107 mm passò conseguentemente dai 15 mm di acciaio a 300 metri, ai 30 mm.
Per quanto riguarda l’effettiva produzione di serie, la Fabryka amunicji Skarzysko Kamienna realizzò due lotti di munizioni ordinarie nel 1937 e nel 1938, esiste anche una rara variante a salve, per esercitazione, dotata di proiettile in legno cavo di colore azzurro. Il caricamento sotto controllo tedesco con la palla perforante con nucleo in tungsteno fu eseguito dalla Hugo Schneider, che aveva preso il controllo della fabbrica nazionale di munizioni polacca di Skarzysko-Kamienna, ma avvenne nello stabilimento di Altenburg in Turingia, con codice identificativo “P490” e, dopo il 1940, “wg”. Nel corso del 1941 alcuni lotti furono allestiti dalla Theodor Bergmann & Co nello stabilimento di Velten (codice “cdo”), utilizzando però bossoli della Schneider. Fu anche allestita dalla Polte di Magdeburgo una speciale cartuccia inerte da esercitazione con fondello in metallo e corpo in Trolit, una resina sintetica di colore rosso.
Si ringrazia per la collaborazione il museo d’artiglieria di Torino, nella persona del colonnello Michele Corrado e del curatore primo luogotenente Enrico Galletti.
L’articolo completo su Armi e Tiro di ottobre 2021
Scheda tecnica
Produttore: Państwowa Fabryka Karabinów
Modello: Karabin przeciwpancerny wzór 35 “Maroszek”
Tipo: fucile anticarro
Calibro: 8×107 mm
Funzionamento: ripetizione manuale, otturatore girevole-scorrevole
Alimentazione: caricatore amovibile monofilare
Numero colpi: 4
Lunghezza canna: 1.200 mm
Lunghezza totale: 1.760 mm
Scatto: diretto
Percussione: percussore lanciato
Sicura: manuale ad anello sulla coda dell’otturatore
Mire: mirino a lama, tacca di mira fissa a “U”
Materiali: acciaio al carbonio, calciatura in noce
Finiture: brunitura nera opaca
Peso: 10.000 grammi