Il Natural history museum del Regno unito è arrivato a una conclusione sconcertante: da studi e ricerche fatte, la biodiversità sta calando più rapidamente nelle aree protette rispetto a quelle non protette. Attraverso un indice chiamato Biodiversity Intactness Index è stato determinato che tra il 2000 e 2020 l’integrità della biodiversità è calata in media di 1,9 punti nelle aree non protette e 2,1 in quelle al contrario protette.
Come si ricorderà, nel 2022 i Paesi partecipanti alla Convenzione delle Nazioni Unite hanno partecipato in Canada alla Cop15, sottoscrivendo un accordo per proteggere la Natura denominato “30×30”. L’accordo prevede la costituzione di aree protette sia in mare sia sulla terraferma da parte di ciascun Paese. Ora, il Natural History museum dichiara di aver dimostrato, con un suo rapporto, che le istituzioni scientifiche sembrano portare avanti il progetto 30×30 in modo non adeguato a salvaguardare la biodiversità nelle aree protette, denunciando altresì che i decisori politici si stanno concentrando più sul risultato numerico che sul suo effettivo risultato pratico. E questo perché i piani di sviluppo e attuazione non privilegiano l’intero ecosistema, ma sono specifici per determinate specie di interesse maggiore. Ovvero, tanto per fare un esempio, si instaurano misure di protezione per specie endemiche mettendo in crisi e in pericolo le altre che ci convivono insieme. Gli esempi nostrani non mancano. Proteggiamo infatti nutrie e cormorani che, nell’ordine, danneggiano specie autoctone mangiandone i piccoli e distruggendo l’ambiente necessario alla sopravvivenza. I cormorani in particolare, predatori seriali di pesce e simili, scacciano o rendono impossibile la vita ad altri predatori che si cibano o vivono di analoghi bisogni. E nonostante che il 22% delle zone più ricche di biodiversità siano all’interno di zone protette, è proprio lì che l’integrità biologica sta diminuendo più velocemente. “Dovremmo andare verso un processo più dinamico e attentamente monitorato, tramite il quale le aree possono essere “gestite” fino a uno stato di maggiore resilienza”, spiegano gli autori dello studio. Continuando ancora, gli esempi possono essere diversi. In molte zone protette, o parchi, spesso per conservare una sola specie in numero maggiore, perché più iconica e più attraente per chi ci vive, la si sfrutta o ci si bea dell’immagine senza curarsi di quello che serve ad altre specie, per far parte in maniera equilibrata di presenze atte a conservare tutto l’intero indotto naturale. Esempio i cervi abruzzesi, “belli e impossibili”, che da specie selvatica in numero equilibrato sono diventati una immagine turistica di animali degradati, ma attraenti visivamente per chi viene a fotografarli e accarezzarli. Di conseguenza tutte le altre specie, anche minuscole e di fattezze meno simpatiche, soffrono la pressione e riducono sia il loro spazio vitale, sia il numero necessario al territorio. Ed è su questo che le aree protette dovrebbero fare un necessario salto di qualità. Liberarsi di animalismo e interesse solo per specie iconiche, e dare “da mangiare” a tutte le specie, conservando i numeri giusti per ogni componente della biodiversità. La quale, tra l’altro, comprende inevitabilmente le specie arboree che, destinate all’alimentazione, se troppo sfruttate modificano la composizione del terreno e delle disponibilità alimentari.