Una sentenza abnorme della Cassazione su una katana ornamentale riapre l’annosa questione: siamo l’unico Paese d’Europa e forse del mondo a differenziare le “armi bianche” dagli strumenti atti a offendere
Come è noto, l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo (e praticamente l’unico in Europa) ad avere una precisa distinzione giuridica tra i coltelli e gli altri oggetti appuntiti o taglienti di uso comune, e le “armi bianche”, assimilando queste ultime in tutto e per tutto alle armi da fuoco. Con in più l’aggravante che, diversamente dalle armi da fuoco, per le armi bianche non è prevista alcuna autorizzazione al porto, che resta quindi sempre vietato. Cosa rientri tra le armi bianche e cosa tra gli strumenti atti a offendere (coltelli eccetera), è tuttora materia del contendere, anche (e soprattutto) giudiziaria, con risultati a volte grotteschi. Come è il caso per la recente sentenza pubblicata dalla Cassazione (9 settembre 2019, n. 37.375, sezione I penale) relativamente alla qualificazione giuridica di una Katana ornamentale, nata d’origine senza filo né punta per ragioni puramente d’arredamento. La Cassazione ha stabilito che, nonostante l’assenza della punta e del filo tagliente, la katana è da considerarsi “un’arma vera e propria, a prescindere dalle sue condizioni di efficienza quanto alla lama”. Secondo la Cassazione la sua natura di “arma propria” sarebbe confermata anche dal fatto che “è stata brandita dall’indagato in danno del malcapitato D.C.” (quindi, se avesse brandito un mestolo, tutti i mestoli potrebbero essere acquistati solo con un porto d’armi…). La corte prosegue, con apprezzabile sprezzo del ridicolo, argomentando che “da ciò emerge con evidenza la caratteristica tipica della katana, concepita come strumento di offesa alla persona e perciò in uso fino a tempi recenti agli ufficiali dell’esercito giapponese”.
A proposito delle armi bianche attualmente in dotazione agli ufficiali e agli allievi delle accademie militari, non giapponesi bensì italiani, è opportuno ricordare che il 2 marzo 2016 lo Stato maggiore dell’esercito, di concerto con il ministero dell’Interno, ha emanato una apposita circolare nella quale ha evidenziato che solo le sciabole o gli spadini dotati di punta e filo tagliente devono essere denunciati, mentre quelli che non sono provvisti di queste caratteristiche offensive non sono vincolati all’obbligo previsto dal Tulps per l’acquisto (porto d’armi, nulla osta) e la detenzione (denuncia). Appare quindi evidente che da una parte c’è un organo dello Stato (il potere esecutivo, pensando in particolare al parere del ministero dell’Interno) secondo il quale la differenza tra l’arma bianca e l’oggetto cerimoniale-ornamentale è rappresentata dalla presenza o meno di punta e filo; dall’altra parte c’è un altro organo dello Stato (il potere giudiziario, la Cassazione) secondo il quale un pezzo di metallo senza punta né filo, conformato però con la “forma” di una spada, è un’arma. Anche se, come avviene spesso con tali oggetti ornamentali, per la realizzazione della lama vengono utilizzati materiali che non consentono una agevole affilatura.
Al di là delle assurdità giuridiche e giudiziarie alle quali la Cassazione ci ha periodicamente abituato, parlando in particolare di armi con annessi e connessi, il problema è alla radice: è inammissibile, cioè, che ancora oggi nel XXI secolo si intasino gli uffici giudiziari con questioni di lana caprina riguardanti la distinzione tra l’arma bianca e lo strumento atto a offendere. Non ha senso, cioè, che per comprare una Katana da appoggiare sulla mensola del salotto, in vendita in qualsiasi negozio di cineserie, si scopra “a posteriori” che ci voleva addirittura il porto d’armi, mentre nessuno ha da ridire nulla se in un negozio di giardinaggio si acquista un machete lungo un metro, affilatissimo. O se ci arriva direttamente a casa la serie “miracolosa” di coltelli da cucina acquistati con la televendita in Tv. Perché è ovvio che non si può togliere i coltelli da ogni singola cucina d’Italia, né far fare il porto d’armi a ogni singola massaia. Allora il discrimine, peraltro già previsto dalla legge, è che per gli strumenti atti a offendere esiste il “giustificato motivo” per ammettere la liceità del porto. In altre parole: stai andando a funghi? È giusto che ti porti dietro il coltello da funghi. Stai andando allo stadio? Il coltello da funghi lo lasci a casa, se lo porti addosso ti sanziono.
Assimilare le armi “bianche” agli strumenti atti a offendere avrebbe il vantaggio di alleggerire gli uffici di Ps di tonnellate di pratiche relative all’acquisto, alla vendita e al collezionismo di strumenti che hanno esattamente la medesima pericolosità di un coltellaccio da macellaio o di un qualsiasi strumento per il giardinaggio (vogliamo parlare delle cesoie o dei decespugliatori? Strumenti di morte…), senza alcuna contropartita in termini di sicurezza sociale, perché all’autorità di Pubblica sicurezza resterebbero comunque i più ampi poteri sanzionatori in caso di utilizzo distorto di questi oggetti. Così come, peraltro, accade oggi con qualsiasi coltello, anche di piccole dimensioni.
A tal proposito è opportuno ricordare che in questa legislatura è stato presentato un ddl che si propone proprio la semplificazione legislativa sulla materia. Sarebbe auspicabile che la politica affrontasse la questione dal punto di vista tecnico anziché, come sempre, ideologico, contribuendo alla transizione dell’ordinamento giuridico italiano nel XXI secolo. Che sarebbe anche ora…
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