Solo una pistola con caratteristiche a dir poco fuori del comune avrebbe potuto sopravvivere alle forche caudine dei test militari, corroborati dalle pressioni delle aziende nazionali esercitate ai più alti livelli. Ma la Beretta M9, come oggi è universalmente conosciuta, ha saputo fare questo e molto di più, visto che oltre 25 anni dopo quelle prove al limite dell’impossibile, per quanto ufficialmente rimpiazzata dalla Sig Mhs, è ancora saldamente nelle mani dei soldati di fanteria, marina, aeronautica, marine corp e guardia costiera americani, senza risentire del tempo che passa ma, anzi, confermando ogni giorno con i fatti di essere, come è stata recentemente battezzata, la vera “world defender”.
E abbiate pazienza se un po’ di orgoglio ci inumidisce le palpebre, per un made in Italy che è diventato il simbolo del soldato americano nel mondo e che ha abbondantemente superato i 3 milioni di esemplari prodotti da quel lontano 1975, quando la prima pistola modello 92 ha lasciato la fabbrica di Gardone Val Trompia (Bs) per raggiungere il suo primo “cliente” militare, il Comando subacqueo degli incursori italiani.
Ma sarebbe veramente riduttivo pensare che la storia e lo sviluppo della 92 Fs (98 Fs per il mercato commerciale italiano) si sia fermato, come cristallizzato, dopo il successo planetario ottenuto con la commessa Usa: il lavoro di perfezionamento, al contrario, non ha mai subìto soste, per consentire a un prodotto già eccellente di tendere, giorno dopo giorno, sempre più verso la perfezione. Se, però, è stato raccontato e spiegato tutto il possibile su quanto è avvenuto prima e durante l’adozione del 1985, ben poco è stato detto su quanto sia successo dopo. Questo è il momento giusto per farlo: per questo siamo partiti a “caccia” di aneddoti, grazie alla preziosa collaborazione di alcuni ex dipendenti Beretta che si sono gentilmente prestati al nostro fuoco di fila di domande. Subito dopo l’adozione della M9, la prima fornitura fu assolta dallo stabilimento di Gardone, ma fu evidente da subito la necessità di provvedere all’espansione dello stabilimento Beretta del Maryland per provvedere sul suolo nazionale all’assolvimento del contratto. Ricorda Pietro Ottobri, responsabile del controllo di qualità impiegato in Beretta dal 1958 al 1994: «Lo stabilimento di Accokeek nacque principalmente per assicurare la produzione sul territorio americano delle pistole tascabili che, in virtù del Gun control act e di altre leggi introdotte in quegli anni, a causa delle dimensioni ridotte non potevano più essere importate dall’estero, ma dovevano essere prodotte in America. Si trattava di due semplici capannoni, poco più, mi si passi il termine scherzoso, di due pollai per le galline! Ma l’espansione fu rapidissima, secondo il tipico stile americano». Sul punto gli fa eco Giovanni Santoni, disegnatore progettista dipendente Beretta dal 1970 al 2008: «In un giorno, gli americani hanno realizzato le case per i dipendenti. Lo capisce? Un giorno! Alla sera siamo andati a casa utilizzando l’autostrada, il mattino dopo siamo ritornati sulla stessa autostrada e c’era una corsia in più! Ricordo che una volta hanno persino realizzato un ponte per una strada che intersecava l’autostrada, sempre in una sola notte!».
Fino alla fine del 1985, le armi provenivano in toto dall’Italia; la seconda fornitura fu realizzata, invece, con i componenti principali (canna, carrello, fusto) realizzati ad Accokeek e le minuterie realizzate a Gardone, fino almeno alla fine del 1986; quindi, dal 1987-88, le armi sono state realizzate completamente nel Maryland, con l’eccezione di pochi componenti (per esempio il cane e il grilletto).
Ce lo ha confermato Pier Giulio Milani, responsabile del montaggio e dipendente Beretta dal 1962 al 2000: «La produzione di Accokeek non si discostava in nulla da quella di Gardone. Gli americani sono bravissimi costruttori e seguono alla lettera le procedure, ma non sono in grado di pensare in modo creativo, per esempio per risolvere un imprevisto. A riprova di ciò, il fatto che quando si presentava un problema, bisognava mandare una squadra di italiani al di là dell’Oceano per risolverlo!».
Ma il “cimento” è anche servito per la crescita aziendale, non solo e non tanto dal punto di vista strettamente numerico, ma anche per quanto riguarda le capacità produttive, i nuovi materiali, la qualità. «Prima, nelle forniture per le nostre forze armate e di polizia», ricorda Ottobri, «le prove di durata sui lotti di produzione venivano effettuate sulla distanza dei 3 mila colpi. Con l’adozione della M9, le prove di durata si fanno sul limite dei 10 mila colpi».
Santoni aggiunge: «È stato con la M9, per la prima volta, che abbiamo utilizzato i documenti Qap (Quality assurance provision, ndr), quei documenti che riportano la “filiera” del singolo pezzo, dal disegno del componente alle specifiche della materia prima. La crescita della filiale statunitense ha anche fatto sì che Beretta riuscisse a entrare in contatto con numerose aziende americane specializzate nei più disparati settori, con proficui risultati sullo studio di nuove tecniche di lavorazione, sui materiali e anche sui trattamenti superficiali». Tra i problemi che la neo-arrivata M9 si trovò a dover risolvere ci fu quello delle critiche al carrello, giudicato da taluni “troppo fragile”. In particolare, si verificarono alcuni casi di frattura netta del carrello, allo sparo, nel punto in cui sono ricavate le sedi del blocchetto oscillante, con conseguente proiezione violenta della metà posteriore in faccia al tiratore.
Il problema fu risolto dando vita al modello 92 Fs, dotato di un perno del cane con un disco la cui estremità superiore scorre in una fresatura sul lato sinistro del carrello. Poiché la fresatura non arriva fino alla volata, ma si interrompe a un certo punto (prima delle sedi per il blocchetto oscillante), in caso di frattura netta del carrello la sua metà posteriore viene intercettata da questo dischetto e non può finire in faccia al tiratore. Questa modifica è stata realizzata di serie dal 1989, ma tutte le M9 fornite fino a quel momento all’esercito americano sono state modificate.
Le prove militari sono gravose: ogni 500 armi, se ne prelevano 3 a caso che devono sparare 10 mila colpi ciascuna senza rotture meccaniche, con pulizia ogni 500 colpi e verifiche per eventuali cricche con il magnaflux ogni mille colpi. Se una di queste pistole fallisce la prova, tutto il lotto deve essere completamente analizzato e revisionato. Quindi si ripete la prova con altre tre pistole e se una di queste fallisce la prova, il lotto viene rifiutato.
Vale la pena di ricordare anche l’aspetto affidabilità: nei test d’azienda prescritti, l’M9 ha una media di un inceppamento ogni 21.500 colpi sparati, un record assoluto.
Le prove per l’accettazione del lotto prevedono anche lo smontaggio completo di 20 pistole e il loro riassemblaggio a parti “incrociate” per la prova di permutabilità.
Infine, c’è il cosiddetto capture test, che consiste nel prendere una pistola del lotto, tagliare il carrello sui due lati in corrispondenza delle sedi del blocchetto lasciando solo un millimetro di metallo per parte e sparare fino a provocare la frattura completa, per verificare il funzionamento della sicura contro l’extra corsa di retrocessione. Malgrado le ampie prove sulla sicurezza e l’affidabilità, il lavoro dei tecnici Beretta sull’arma non si è mai fermato, anzi, si può affermare che abbia riguardato la maggior parte delle componenti dell’arma.
La prima revisione è stata effettuata nel 1994, con una leggera modifica nella forma del dust cover: prima, nella parte inferiore era perfettamente parallelo al carrello, dopo è diventato leggermente rastremato, si assottiglia verso la volata ed è leggermente più spesso nella zona davanti al ponticello. «Questa misura è stata presa», ci ha spiegato il tecnico Alessandro De Gasperi (tuttora impiegato, ha lavorato sul progetto Beretta 92 dal 1993 al 2006), «per offrire una maggior resistenza in una zona di stress del fusto, cioè dove si scarica l’urto di fondo corsa del carrello».
Ma a godere dei maggiori sforzi è stato il blocchetto oscillante: modificato una prima volta rendendo più arrotondato il punto di innesto delle alette nel corpo, nel 2001 ha raggiunto l’attuale profilo, che comporta un maggior spessore nella parte inferiore, ottenuto ridisegnando il profilo del piolo di azionamento. «Queste misure ne hanno sicuramente raddoppiato la durata rispetto al passato», ha confermato De Gasperi, «ma più di tutto ha contribuito in modo fondamentale il passaggio all’elettroerosione per ricavare sia le alette del blocchetto, sia soprattutto le sedi nel carrello. Con l’elettroerosione, infatti, si può assicurare la perfetta complanarità delle due sedi e delle due alette, facendo sì che lo sforzo sia sempre ripartito in modo assolutamente simmetrico». Il risultato ottenuto con l’elettroerosione ha consentito, tra l’altro, di abbandonare la strada dei carrelli rinforzati tipo Brigadier senza particolari rimpianti.
Ultima in ordine di tempo, l’aggiunta di componenti polimerici: «I polimeri sono interpretati dal pubblico sempre come qualcosa di inferiore rispetto al metallo», ha commentato De Gasperi, «ma questo non è affatto vero. Innanzi tutto, tutti i componenti cosiddetti polimerici della 92 Fs (sgancio caricatore, grilletto, fondello caricatore, tappo portamolla del cane, guidamolla, alcuni dettagli del gruppo sicura al carrello, ndr) hanno in realtà un’anima in acciaio, tranne il guidamolla. Tanto per fare un esempio, il caricatore standard aveva il fondello in lega leggera: bastava lasciarlo cadere a terra due volte per veder saltar via la finitura, per non parlare delle ammaccature. Il nuovo fondello, in polimero con anima in acciaio, è inalterabile».
Non tutte le pistole, però, hanno beneficiato di tutte le migliorie. Le M9 militari americane, per esempio, beneficiano dei nuovi procedimenti produttivi (elettroerosione), ma non incorporano alcuna delle modifiche al blocchetto oscillante o al dust cover e l’unico componente in polimero che è stato accettato è, in pratica, l’elevatore del caricatore. Persino i riferimenti bianchi sulle mire sono ancora del tipo Von Stavenhagen (dot sul mirino, sbarretta sulla tacca di mira al centro, sotto la finestra), mentre nella produzione corrente si utilizzano ormai da anni i 3-dot system (dot sul mirino, altri due ai lati della finestra della tacca). L’esercito italiano, per contro, valuta sempre positivamente ogni miglioria apportata al progetto, quindi le pistole date alle nostre forze armate sono, con il procedere delle forniture, sempre dell’ultima generazione.
Intermedia tra le due posizioni è la Guardia civil spagnola, che ammette tutte le modifiche meccaniche suggerite dall’esperienza ma non accetta i componenti polimerici.
L'articolo completo è stato pubblicato su Armi e Tiro – maggio 2010