Nei mercati rionali di Bruxelles si vende la carne di animali africani protetti: un retaggio culturale delle popolazioni immigrate che, però, ha effetti devastanti sulla fauna del continente nero, nell’indifferenza dei cosiddetti ambientalisti
Sembrerà anacronistico, o inverosimile, ma è stato accertato che in diversi mercati popolari di Bruxelles in Belgio viene venduta illegalmente una notevole quantità di carne di animali protetti provenienti dall’Africa, denominata generalmente “bushmeat”. Ovvero carne della boscaglia, o della savana. In italiano non esiste una parola specifica per tradurla. Il problema è conosciuto da anni, e in mezzo alle bancarelle di frutta e verdura, viene messa in commercio la carne di animali catturati illegalmente e senza particolari procedure per il rispetto di profilassi sanitarie. Questo perché le diverse comunità immigrate, provenienti dal continente africano, hanno la tendenza a voler mantenere tradizioni della loro vita passata acquistando questo tipo di merce. Fino adesso la questione si tramandava solo attraverso passaparola o informazioni generalizzate. Ma ora uno studio pubblicato su Biodiversity and Conservation riporta i risultati di una indagine condotta da un team guidato da Sophie Gombeer del Royal belgian institute of natural sciences, che ha svelato la presenza di almeno tre specie protette africane tra i tagli di carne in vendita nei diversi mercati della capitale. Tra il 2017 e il 2018 sono stati acquistati dal team alcuni quantitativi di “bushmeat” in ben cinque diversi mercati di Bruxelles. Il prezzo è di circa 40 euro al kg e sono disponibili solo su richiesta. Analizzati i vari Dna, si è giunti alla conclusione che nei vari tipi di carne c’è quella del cercopiteco naso bianco del Congo, cercopiteco di Brazzà e anche una specie di piccola antilope chiamata cefalofo azzurro. Naturalmente tutto questo traffico è altamente fuorilegge. La consuetudine nel mantenere queste abitudini alimentari è stata confermata da almeno 15 persone su 16 intervistate, le quali hanno dichiarato che fanno abitualmente uso di tale cibo, confermando inoltre che tale uso viene fatto per mantenere un’alimentazione tradizionale, come quella che avevano nei loro Paesi prima di migrare in Belgio. L’autrice dello studio ha quindi reso nota tale pratica proprio perché, oltre al fatto di essere (anche) dipendente dall’uccisione di animali protetti, è oltretutto superflua essendo disponibile in loco molta altra carne a prezzi accessibili proveniente da filiera d’allevamento. Il problema del Bushmeat è sempre alla ribalta, in Africa e fuori, ma molto sottovalutato dalle comunità benpensanti europee, naturalmente sempre pronte a scagliarsi contro la caccia legale. Mentre, tuttavia, quest’ultima valorizza ogni singolo animale lasciando sempre, tranne il trofeo, la carne alle popolazioni locali (insieme però a migliaia di dollari di tasse di abbattimento), il fenomeno del Bushmeat interviene pesantemente sulle specie più vulnerabili e indifese, senza alcun criterio di gestione faunistica e senza alcuna interruzione, essendo praticata in ogni periodo dell’anno. Questo tipo di caccia inoltre preda animali giovanissimi e giovani, destabilizzando le popolazioni e la loro presenza sui territori. L’opinione pubblica tende a sottovalutare il problema, ma soprattutto a giustificarlo paragonandolo al “campicello del povero” che coglie alcuni frutti che spuntano spontaneamente. Invece gli animali vengono catturati con trappole, lacci, fili d’acciaio, avvelenati, uccisi a bastonate, scuoiati vivi eccetera, per non parlare dei trattamenti delle spoglie, tenute per ore o giornate intere nascoste tra parassiti, interiora, terra, mucchi di escrementi e migliaia di mosche carnarie. È una pratica, insomma, che non ha nulla di tradizionale, nessuna giustificazione e che oltretutto è veicolo primario di infezioni o infestazioni per chi se ne ciba. E che impoverisce sempre più i già devastati territori africani.