Si fanno sempre più definiti i contorni della vicenda del sudamericano che ha sparato nella questura di Trieste: occorre a questo punto una riflessione sulle procedure attualmente in vigore e sugli inquietanti scenari che si dischiudono
L’episodio di Trieste, costato la vita agli operatori di polizia Matteo Demenego e Pierluigi Rotta, non può essere trattato come un incidente qualsiasi. Presenta talmente tanti spunti di approfondimento da imporre uno studio dell’incidente quanto più ampio e profondo possibile.
A patto, però, di non liquidare l’episodio come una tragedia qualsiasi e di non limitarsi alla prima impressione o al primo riscontro. Sarebbe semplice, infatti, ritenere di aver individuato una singola causa e liquidare la faccenda limitando la discussione alle sole fondine, alle sole procedure di polizia, alle sole esigenze imposte dalla procedura penale, al solo addestramento individuale degli operatori, al solo cambiamento repentino del tipo di minacce che la nostra società presenta in modo sempre più diffuso. Sarebbe semplice quanto inutile e riduttivo. Se vogliamo davvero cercare di capire cosa è accaduto, quali sono le molteplici cause e come intervenire con correttivi adeguati è necessario, invece, provare ad analizzare nella sua interezza lo scenario attuale, che è composto da tutti i fattori citati e altri ancora, che vanno messi a fattor comune.
Perché, contrariamente a quanto sostenuto dal Gip nella convalida del fermo,
non sono stati affatto uccisi senza un perché. Sono morti a causa di un numero sterminato di perché, che occorre valutare singolarmente e poi nel loro insieme, a tracciare una vera e propria mappa. A partire dalle inadeguatezze della procedura penale.
Lo scenario nel quale operano le forze di polizia è tracciato, innanzitutto, dall’impianto del sistema penale e di procedura penale, che rappresentano gli argini entro i quali si deve muovere anche il loro operato.
Le prime notizie giunte da Trieste riguardavano l’ipotesi di un indiziato di delitto (rapina), il cui fratello avrebbe chiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Quell’ipotesi ha occasionato ampie discussioni sulla legittimità e l’opportunità di impiegare dispositivi di limitazione della libertà personale, in primis le manette. Su questo punto specifico occorrono con urgenza procedure standard di arresto, fermo ed accompagnamento presso gli uffici di polizia, come occorrono con urgenza procedure standard di gestione delle fasi di permanenza degli indiziati di delitto presso gli uffici stessi. Su questa strada, peraltro, il mondo penitenziario ha dovuto proceduralizzare da tempo fasi e comportamenti e in effetti, non si vede cosa vi sia di diverso nel caso in cui la limitazione della libertà personale sia anticipata dall’autorità di pubblica sicurezza con provvedimenti provvisori in casi di necessità ed urgenza, come previsto dall’art. 13 della Costituzione.
Nel caso di Trieste, però, si è appreso in seguito che l’assassino sarebbe stato accompagnato presso la Questura in veste di persona informata sui fatti e questo cambia tutto, sgomberando il campo circa l’eventuale utilizzabilità di strumenti di limitazione della libertà personale, come le manette di cui si è detto tanto: è evidente, infatti, che a qualsiasi cittadino venga chiesto di recarsi in un ufficio di polizia per riferire fatti di cui è solo a conoscenza non può essere limitato nella sua libertà personale. Pensiamo al caso in cui dovessimo assistere in prima persona a una rapina e ci chiedessero di collaborare riferendo quanto a nostra conoscenza…
L’operatore, dunque, accompagna il soggetto presso gli uffici poiché “informato sui fatti” (in questo caso anche se fortemente “indiziato”, perché non va dimenticato che il fratello ha chiesto l’intervento della polizia indicandolo come autore di una rapina). Perché? Questa prassi è purtroppo diffusa, a volte anche nella necessità di attendere l’emersione di gravi indizi di colpevolezza che, a quel punto, trasformano la permanenza del soggetto presso gli uffici da persona informata sui fatti a indiziato di delitto, legittimando la restrizione della libertà personale e facendo inoltre scattare a quel punto tutte le garanzie difensive di cui, fino a quel momento, il soggetto non disponeva. Agli occhi del cittadino sembra quasi che l’operatore sia costretto a non formalizzare lo stato di fermo nella necessità di acquisire quante più informazioni possibili e più rapidamente possibile, circostanza che le attuali garanzie difensive anticipate forse non consentirebbero. Questo è il contesto in cui si è consumato l’episodio.
È in questa fase intermedia che pare sia accaduta la tragedia: proprio nella fase in cui sia il soggetto accompagnato che gli operatori di polizia non hanno ancora alcuna certezza né alcuna tutela.
È allora indispensabile chiedersi come gli operatori possano essere maggiormente tutelati in questa fase, nel rispetto della libertà personale di un soggetto accompagnato che, però, ancora indagato non è.
C’è da dire che, storicamente, questa fase non ha mai causato pericolo concreto per l’incolumità degli agenti. Nessuna tipologia criminale, dall’autore di un reato bagatellare a un criminale di spessore, si è infatti spinto sinora fino ad attaccare una Questura dal suo interno. Inoltre, questa fase “grigia”, impostasi nella prassi a colmare lacune dell’attuale procedura penale, è breve e del tutto particolare e, soprattutto, sconosciuta ai non addetti ai lavori.
Si dirà, poi, che nel caso di Trieste le cautele erano proporzionate alla presenza di una persona che sarebbe stata rilasciata due ore dopo con una semplice denuncia a piede libero. Oggi, però, le minacce per gli operatori di polizia sono profondamente diverse dal passato ed è urgente, quindi, che gli agenti ricevano formazione mirata sulle minacce attualmente più significative, sui rischi concreti che ogni singolo servizio comporta e sulle tecniche e tattiche più adeguate a mitigare ogni rischio. In ogni caso, ci sentiamo di dire che è arrivato il momento di ritenere quanto meno ogni soggetto fermato come potenzialmente pericoloso almeno relativamente ai reati che contemplano la violenza come elemento costitutivo, come la rapina di Trieste. Così come ci sentiamo di dire che è necessario mettere chiunque permanga a qualsiasi titolo in un ufficio di polizia nella impossibilità materiale di commettere una cosa del genere.
Il Questore di Trieste prima e il Capo della polizia poi hanno elogiato la risposta del personale della Questura, il cui intervento ha evitato tragedie di proporzioni ancora maggiori all’interno ed all’esterno della Questura, che si trova in zona densamente abitata. Non vi è dubbio sulla tempestività e professionalità della risposta di chi ha incrociato l’assassino e ha interrotto la sua azione.
Viene da chiedersi, però, se le procedure che vengono assegnate a chi opera nei posti di guardia siano adeguate, come vengano classificate le minacce e quali risposte vengano associate a ciascuna in quel preciso servizio; e ancora, quanto personale è deputato alla pura protezione dell’infrastruttura, con espresso riferimento a chi è impiegato esclusivamente alla sua protezione e non che sia in grado di rispondere alla minaccia solo incidentalmente poiché vi si trova all’interno per svolgere altri servizi.
L’offender, come è emerso, era ricercato in Germania e colpito da un mandato di arresto emesso il 7 marzo 2019 dal Tribunale di Erdeng per aver sfondato, con un auto di un amico, le barriere dell’aeroporto di Monaco raggiungendo un aereo cargo della Lufthansa il 6 novembre 2018. Dopo qualche giorno di carcere, per “atto di interferenza illecita contro l’aviazione civile di inaudita gravita” è stato liberato e se ne sono perse le tracce. Viene subito da chiedersi se l’Italia sia stata avvisata o, in caso contrario, perché vi sia stato un tale gap del sistema di cooperazione internazionale di polizia nello scambio di informazioni.
Interessante e saliente il fatto che abbia diretto la sua azione, apparentemente senza senso, verso il sistema del trasporto aereo, obiettivo storico di moltissime forme di terrorismo ed infrastruttura critica e sensibile per sua natura.
Dal punto di vista criminologico è inaccettabile pensare che un uomo delinqua senza alcun motivo. Le immagini diffuse mostrano un soggetto che cerca una via di fuga, si trova in una stanza cieca che perlustra e bonifica velocemente e minuziosamente, fin dietro alla porta. Poi attraversa l’atrio della Questura, sempre arma nella mano destra, fino a che sulla sinistra dell’uscita nota la presenza di poliziotti, decidendo di fare fuoco e impugnando in quel momento l’arma a due mani, per poi correre all’esterno con la pistola nella sola destra. In altre parole ha portato sempre l’arma nella destra per muoversi in modo disinvolto e ha impugnato in modo più saldo quando ha voluto fare fuoco: qualcuno ci spiegherà prima o poi quale tipo di formazione sull’uso delle armi questo assassino ha ricevuto in passato, perché è certo che ne abbia ricevuta.
Viene quindi da chiedersi se i due sudamericani abbiano semplicemente avuto un raptus proprio cogliendo occasionalmente, per pura fortuna loro, la falla del sistema “persona informata” e conseguente minaccia valutata di bassissimo livello o se, invece, sia legittimo ipotizzare che qualcuno abbia individuato questo “limbo” di libertà all’interno di una Questura per attaccarla e, in ogni caso, testare sul campo la gestione della sicurezza di un’infrastruttura del genere.
Non sarebbe il primo caso di penetration test delle misure di sicurezza di un’infrastruttura critica. Come ricordato da attenti e titolati analisti proprio in seguito ai fatti di Trieste, nel 2017 fu rinvenuta una pipe bomb nel bagaglio di un pakistano con passaporto italiano che si apprestava a prendere un volo della Ryan Air da Manchester per Bergamo (la stessa Manchester in cui è appena avvenuto l’attentato con il coltello che ha ferito 5 persone, che ha visto un precedente attacco ad arma bianca nel gennaio 2019 e l’attentato al concerto della pop star Ariana Grande nel maggio del 2017). In quel caso l’esame del rilevatore non evidenziò alcuna traccia di esplosivo, tanto che l’uomo non subì conseguenze giudiziarie: la pipe bomb era di fatto inerte. Legittimo pensare ad un penetration test.
Quindi, se qualcuno privo di patologie ma con il solo scopo di attaccare un infrastruttura simbolo delle Istituzioni come una Questura, domattina pensasse di commettere un reato quasi trascurabile al solo fine di introdursi in una Questura, sottrarre armi agli agenti e fare strage di poliziotti? Ottenendo cioè il risultato immediato di un attacco al cuore delle istituzioni e quello mediato di rilevare falle nel sistema di protezione (o godendo di qualche altro penetration test già condotto)? Lo scenario sarebbe perfetto per un suicide-by-cops del perfetto jihadista…
Questo tema di attualità sarà approfondito sulla rivista cartacea del mese di novembre.