13 novembre 2015–2020: cinque anni dalla strage del Bataclan, proprio mentre è sotto gli occhi di tutti la recrudescenza dell’attività terroristica jihadista in Europa delle ultime settimane. Analizziamo il fenomeno alla ricerca di soluzioni praticabili
13 novembre 2015–2020: cinque anni dalla strage del Bataclan, proprio mentre è sotto gli occhi di tutti la recrudescenza dell’attività terroristica jihadista in Europa delle ultime settimane. Come se anche il fenomeno terroristico, così come stanno facendo il panorama politico e la situazione sanitaria, vivesse un’accelerazione storica. Ma i tre aspetti sono da considerarsi assolutamente indipendenti tra loro?
Seguendo il trend, e le capacità operative, dell’ultima stagione jihadista in Occidente, i bersagli sono sempre soft target. Siamo lontani dalle capacità operative necessarie ad attaccare obiettivi sensibili di alto valore propriamente detti, ma la strategia del terrore ottiene comunque i suoi effetti di diffusione del panico, andando a colpire soft target come i locali pubblici e i pubblici esercizi e, in definitiva, la popolazione ignara e incolpevole.
Tanto nell’attacco della cattedrale di Nizza, in cui il 21enne tunisino Brahim Aoussaoui ha ucciso tre persone, quanto in quello di Vienna, in cui l’austro-macedone Kujtim Fejzulai ne ha uccise 4 e ferite 23, fino all’assassinio del professore francese Samuel Paty, il bersaglio sono stati proprio soft target: cittadini inermi colpiti in luoghi di culto (della cui protezione ci siamo già occupati dalle pagine di Armi e Tiro), bar e ritrovi all’aperto se non letteralmente per strada.
Il trend degli attacchi più recenti, fino a prima di questi ultimi, ha visto agire singoli individui che non disponevano né di grandi strumenti organizzativi né di grande preparazione.
A differenza di molti degli attentati dal 2015 a oggi, però, ad agire nei casi più impattanti tra quelli recenti non è stato qualche neo-radicalizzato sconosciuto all’antiterrorismo che ha dirottato il disagio socio-economico-esistenziale in Jihad spesso auto-radicalizzandosi in casa, ma spesso soggetti introdottisi in Europa allo scopo di attentare, ovviamente passando per l’Italia.
Quanto al processo di radicalizzazione (processo di trasformazione di un credente in un terrorista), l’attentatore di Vienna non solo era noto all’intelligence, ma era stato in carcere per terrorismo e poi valutato “recuperato” da un progetto di recupero dalla radicalizzazione jihadista, gestito da una Ong. È chiaro come il recupero di un fervente del jihad (come quello degli autori di altre categorie di reati) sia pura utopia: un radicalizzato è per sempre!
Anche il 18enne rifugiato ceceno Abdullakh Anzorov, assassino del professore francese che mostrò alla classe le vignette su Maometto, era entrato in contatto con esponenti di organizzazioni terroristiche in Siria e viveva da un anno la radicalizzazione, osservabile a tutti gli effetti: non beveva, non frequentava donne, e così via.
Dunque, oltre agli auto-radicalizzati “ispirati dal” jihad sono tornati a operare jihadisti, se non di mestiere, ma comunque ferventi, solidi e collegati davvero a reti terroristiche, in grado di fornire, per esempio, le armi utilizzate nell’attentato di Vienna.
E i numerosissimi attacchi sventati negli ultimi giorni, meno risonanti ma ugualmente preoccupanti, confermano questo dato.
Il caso Charlie Hebdo e la riproposizione delle vignette sul Profeta Maometto hanno indubbiamente dato nuovo slancio al fervore islamista nei confronti dell’Occidente, il cui modello socio-culturale sta subendo bordate da più parti.
Anche gli equilibri internazionali incidono non poco sul fenomeno: è indubbio come la Turchia stia quanto meno beneficiando della (se non sostenendo la) progressiva destabilizzazione europea, tanto da spingere molti accreditati analisti ad attribuirle un ruolo addirittura attivo nella spinta jihadista alla quale stiamo assistendo.
Non ultimo, stiamo assistendo all’emersione di un manifesto senso di diffusa solidarietà nei confronti degli attentatori jihadisti da parte di una fetta – indiscriminata e larga – di fedeli musulmani che, benché assolutamente estranei a radicalizzazione e jihad, non temono però di avere parole di giustificazione e addirittura in qualche caso plauso per l’operato dei terroristi, reputando giustificate le azioni alle quali assistiamo e cavalcando l’adagio jihadista (a questo punto sempre più diffuso), secondo cui i credenti musulmani subirebbero in tutto il mondo occidentale ipotetiche pressioni e ingiustizie. Il dato è allarmante perché riferisce di un sentimento di avversione molto più diffuso e trasversale rispetto ai pochi soggetti che arrivano al punto di portare un attacco e che rappresenta un substrato vastissimo per chi ha interesse a diffondere i semi del jihad.
Tutta l’area balcanica, fino alla Cecenia da un lato e all’Italia dall’altro, ormai da decenni rappresenta un crogiolo di disagi (come ogni area che esca da guerre e povertà) che hanno indubbiamente una forte spinta radicalizzatrice.
Ora, crescono anche le sacche interne di malcontento che, se fino a pochi anni fa potevano riguardare l’Italia in misura marginale, oggi evidenziano un numero decisamente maggiore di soggiornanti sul territorio non censiti, di fette di territorio che sfuggono al controllo e del crescente conseguente scollamento Istituzioni/popolazione.
In un momento storico in cui molti sentono come compresse alcune delle libertà fondamentali dell’individuo riconosciute dalle democrazie occidentali, forse vale la pena di fermarsi a riflettere un momento su come poter centrare nuovamente l’equilibrio – spesso sottile – che divide l’esercizio di un diritto fondamentale dall’abuso dello stesso. In questo senso, proprio dalle pagine di una rivista che proclama a gran voce la libertà di espressione e stampa sia consentito osservare come, a prescindere dall’assoluta intransigenza verso qualsiasi forma di violenza, anche la satira non possa spingersi fino all’offesa. L’offesa alla persona e al suo pensiero sembrano ormai essersi impadronite del nostro modo di pensare ed esprimerci: i toni non sono più pacati e tanto nella vita privata quanto in quella pubblica ormai si è trascesi in forme di comunicazione offensive che solo vent’anni fa sarebbero state inimmaginabili. Ciò non toglie, però, che il decoro e l’onore delle persone (e del loro pensiero) debba sempre e ancora essere tutelato.
Chi, dunque, comunica per mestiere non dovrebbe spingersi fino a valicare i limiti del rispetto: che si tratti del Profeta Maometto, di Gesù di Nazareth o comunque del destinatario diretto del culto di altri uomini.
La premessa sembrava doverosa. Quanto agli aspetti concreti, qualcuno è arrivato a sostenere che le misure restrittive che l’Occidente sta adottando per affrontare l’emergenza sanitaria abbiano anche utilità nell’evitare quegli assembramenti che i terroristi prediligono per mietere un numero maggiore di vittime.
La risposta non sembra sensata: il terrore si propaga anche con una sola uccisione, votata alla causa e meglio se con modalità raccapriccianti, contando sulla diffusione del panico operata dalla velocità di propagazione di notizie e immagini tipica della nostra epoca.
Non si può, poi, pensare di passare il resto della vita chiusi in casa, né per la presenza di rischi sanitari/pandemici né per la presenza di rischi sociali tra cui la minaccia terroristica.
Meglio sarebbe ritornare ad avere maggior controllo del territorio, che si realizza innegabilmente anche tramite un rinnovato controllo dei flussi di ingresso nel Paese e, via Italia, in Europa; ritornare a un più puntuale controllo delle attività che si svolgono in determinati luoghi di culto, che spesso oltre a ospitare comuni fedeli si prestano anche a essere bacini di propagazione di messaggi di morte; concepire un diverso sistema di prossimità nel controllo del territorio, fatto di conoscenza personale e rete informativa, per esempio secondo l’eccellente progetto di Controllo del vicinato come sapientemente gestito in realtà come la città di Venezia, ma fatto anche della presenza più capillare di un maggior numero di operatori della security a protezione di luoghi di culto, attività commerciali di grande assembramento (cinema, centri commerciali, eccetera), e persino pubbliche piazze, tema che coinvolge l’ormai indifferibile revisione di tutto l’inquadramento normativo e operativo del mondo della vigilanza privata.
E i cittadini? Sì perché, a chiusura del cerchio, le vittime che restano sui marciapiedi siamo noi.
È vero che le forze di sicurezza restano un obiettivo simbolico e primario; è vero anche, però, che in Occidente sino a oggi tutti gli attacchi perpetrati contro di loro non hanno avuto – per fortuna – esiti così drammatici come gli attacchi ai civili.
Perché? Ovviamente per la pronta risposta delle forze di sicurezza stesse!
Quindi ben venga un presidio del territorio più capillare e condiviso tra forze di sicurezza e cittadini.
In moltissimi casi, però, la cronaca ci ha raccontato di come numerosi attacchi siano stati sventati, interrotti o comunque limitati nei loro esiti nefasti dall’intervento di qualcuno tra i presenti, quindi dai cittadini!
I tempi di risposta delle forze di sicurezza, soprattutto nel caso di attacco perpetrato con le armi da fuoco come nel caso di Vienna, sono e restano comunque lunghi e nell’attesa il numero di vittime cresce vertiginosamente. Non a caso, da più parti si è osservato come la presenza di un armato tra i “buoni” avrebbe potuto provare a fermare l’attentatore di Vienna con qualche vittima di anticipo…
In chiave giuridica, vale la pena di osservare come l’art. 52 Codice penale tratti della “Legittima difesa” e non della presunta quanto inesistente “Legittima auto-difesa”, poiché consente – ed è la sua ragion d’essere! – di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta…
In Inghilterra hanno innalzato il livello di allerta, comunque forti di un apparto pubblico di difesa di tutto rispetto; in Svizzera più di una voce tra gli esponenti politici ha argomentato di come sarebbe opportuno consentire un accesso al porto di armi per difesa più largo, ovviamente sulla base del fatto che i cittadini subiscono importanti controlli per avere accesso alle armi. E noi?