L’omicidio di Brian Thompson, amministratore delegato della società di assicurazioni sanitarie statunitense United HealthCare, ha portato alla ribalta del pubblico i concetti di “ghost guns” e di “armi stampate in 3D”, spesso utilizzati in modo promiscuo e, in definitiva, improprio, il che comporta come conseguenza un generale aumento dell’allarmismo su questo tipo di strumenti: non solo e non tanto negli Stati Uniti, quanto anche qui da noi. Conviene quindi, fare un po’ di chiarezza su come stiano le cose davvero.
Inizialmente l’uomo accusato dell’omicidio, il 26enne Luigi Mangione, era stato dichirato che fosse in possesso di un’arma stampata in 3D, mentre poi le immagini diffuse in un secondo momento hanno dimostrato che si trattasse di una Ghost gun “ibrida”, rappresentata da una impugnatura stampata in 3D, sulla quale tuttavia erano installate componenti in acciaio. La differenza può non essere sostanziale per gli Stati Uniti, ma per noi europei e italiani fa una bella differenza.
Ghost guns e stampa 3D
Con il termine Ghost guns si definiscono armi da fuoco funzionanti che sono state realizzate fin dall’origine senza rispettare le norme che vincolano i produttori di armi sulla matricolazione delle componenti fondamentali. In pratica, sono armi nate senza matricola. La “nascita” senza matricola può essere determinata dal fatto che l’arma è stata realizzata completamente in modo artigianale e casalingo con la tecnologia della stampa 3D, oppure che l’arma è stata realizzata sempre in modo artigianale e casalingo, acquistando componenti semilavorate (quindi non finite, che necessitano ancora di alcune lavorazioni per consentire il funzionamento) e poi sono state completate e assemblate. Oppure, ancora, si tratta di armi realizzate in parte con stampa 3D e in parte con parti tradizionali. Quindi ogni arma realizzata con la tecnologia della stampa 3D è una “ghost gun” ma non tutte le “ghost gun” sono realizzate mediante stampa 3D o, quantomeno, non interamente.
La differenza è sostanziale: le armi realizzate completamente con stampa 3D sono in effetti molto rudimentali, spesso monocolpo (oppure tipo revolver), hanno canna liscia (non rigata internamente), la loro capacità di sopportare ripetuti spari è limitata e di conseguenza anche la loro durata. A volte, se non realizzate con i corretti settaggi di densità della stampa 3D, possono anche esplodere in mille pezzi al primo colpo sparato.
La precisione è scadente e la portata utile è limitata, nei rari casi in cui si tratta di armi a ripetizione manuale (tipo revolver), gli inceppamenti possono essere frequenti. In ogni caso sono in grado di uccidere una persona, se usate a brevissima distanza contro aree vitali. Le armi realizzate con stampa 3D hanno tutte le componenti principali in polimero stratificato, solo alcune parti secondarie come percussore, molle eccetera, possono essere realizzate in metallo, utilizzando componenti di normale reperibilità nelle ferramenta. In ogni caso, la realizzazione è possibile da parte di qualsiasi utente, con una stampante 3D che, oggi, è possibile acquistare a prezzi intorno ai 4-500 euro.
Le Ghost gun realizzate mediante componenti semilavorate, invece, una volta completate e assemblate funzionano come le armi da fuoco realizzate dalle moderne fabbriche d’armi, hanno canna rigata, sono semiautomatiche e funzionano in molti casi con la medesima affidabilità di una pistola normale. La maggior parte di queste Ghost gun è realizzata con componenti compatibili con le pistole Glock, perché queste ultime sono tra le più diffuse sul mercato statunitense e per esse esiste una notevole disponibilità di componenti di ricambio e accessori. Di solito quindi sono camerate in 9×19 con caricatori da 15, 17 o più colpi.
La realizzazione delle Ghost gun con componenti semilavorate dovrebbe in teoria prevedere di essere in possesso di conoscenze tecniche approfondite e di speciali utensili, il problema è che molte delle aziende che vendono queste componenti, vendono nello stesso kit con la parte semilavorata anche le maschere per il centraggio con il trapano a colonna, le punte da trapano, gli alesatori e tutti gli altri utensili necessari al completamento del componente. Quindi in realtà anche questo tipo di armi può essere realizzata agevolmente a casa propria, con utensileria ridotta al minimo (in pratica il già citato trapano a colonna).
Esistono, poi, le situazioni “ibride”, come quella della pistola trovata nello zainetto di Mangione: un’arma semiautomatica tipo Glock nella quale l’impugnatura è stata realizzata con la stampa 3D, ma tutto il resto dell’arma (canna, otturatore, meccanismi interni) sono realizzati in acciaio e sono reperibili sul mercato in quanto non considerati parti fondamentali in senso giuridico (è il caso delle minuterie dello scatto, ma anche della canna e del carrello) oppure vendute come parti semilavorate e poi finite a domicilio.
Questo perché negli Stati Uniti, a livello federale, il Bureau of alcohol, tobacco and firearms considera “parte fondamentale” di un’arma la sola carcassa (il telaio principale), ma non le altre componenti essenziali al funzionamento, come i già citati carrelli e canne. La differenza è che per l’acquisto di un telaio è necessario (ormai in quasi tutti gli Stati dell’Unione) un background check federale e non possono essere spediti a domicilio.
Ne consegue che, in particolare parlando di componenti non eccessivamente sollecitate allo sparo (come il lower receiver di una carabina Pcc su piattaforma Ar15, ma anche l’impugnatura di alcune pistole) è effettivamente possibile realizzarli in 3D e ottenere una componente che, quantomeno per un po’, consente un effettivo funzionamento. Lo stesso discorso vale per i telai polimerici di alcune pistole semiautomatiche in 9×19: anche in questo caso è possibile stamparli in 3D (senza matricola, quindi), poi acquistare (e addirittura farsi spedire a domicilio) canne e carrelli già finiti e funzionanti, le varie minuterie e assemblare il tutto. Questo è quanto ha fatto, apparentemente, Mangione con la pistola di cui è stato trovato in possesso. Il punto tuttavia è che non è corretto dire che la pistola di Mangione sia una “pistola stampata in 3D”, in quanto con la stampa 3D non è possibile oggi realizzare a domicilio le parti in acciaio di una pistola semiautomatica, al momento è possibile stampare in 3D una impugnatura polimerica che possa poi essere integrata da una serie di parti fondamentali in acciaio, per poter funzionare. Altro punto fondamentale è che la realizzazione in 3D di una impugnatura consente di realizzare “in casa” una pistola semiautomatica funzionante, solo con la peculiare legislazione statunitense: in Europa anche le canne e i carrelli, così come gli upper receiver degli Ar15 sono considerati parti di arma in senso giuridico, quindi necessitano di licenze di polizia per l’acquisto e la detenzione e, anche quando acquistati come componenti sfuse, devono essere matricolati. Quindi sul suolo europeo non è possibile, o meglio è estremamente più difficile, assemblare una pistola “ibrida” tra stampa 3D e componenti in acciaio.
Da quanto appena esposto si nota ancora una volta di più che se è vero che i giornalisti della stampa non specializzata utilizzano la situazione sulle armi statunitense come paradigma “universale” per diffondere allarmismi funzionali ad agevolare restrizioni in ambito italiano ed europeo, è altrettanto vero che in realtà la normativa vigente in Europa e in Italia è differente in modo abissale rispetto a quella statunitense, e che tali realtà non sono minimamente paragonabili.
Altro fattore da sottolineare è che la tecnologia della stampa polimerica in 3D non solo non consente allo stato attuale di realizzare armi funzionanti al pari delle pistole semiautomatiche “vere”, ma anche che tale tecnologia non consentirà di farlo neanche, verosimilmente, per gli anni a venire.
È vero anche che esiste in realtà una cosiddetta stampa 3D che al posto del polimero utilizza metalli sinterizzati e che consente a tutti gli effetti di realizzare armi funzionanti in acciaio analoghe a quelle realizzate legalmente da una fabbrica d’armi, ma è altrettanto vero che tali macchine richiedono investimenti di centinaia di migliaia di euro e, quindi, sono acquistabili e utilizzabili solo a livello di grande industria, non certamente a livello privato, personale e “clandestino”.
La stampa 3D richiede, comunque, un elevato livello di attenzione e monitoraggio per i suoi sviluppi futuri, ma senza precipitare in facili e superficiali allarmismi.