Il Tar lombardo respinge il ricorso animalista sul calendario venatorio… ma chi paga?

Resta in vigore quanto deciso dalla regione in merito a date di chiusura, specie cacciabili, limiti di carniere e giornate integrative per la caccia da appostamento, ma il tribunale stabilisce ancora una volta la compensazione delle spese…

È stata pubblicata pochi istanti fa la sentenza con la quale il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia ha respinto in toto il ricorso che Lac, Wwf, Lipu, Lndc e Lav avevano depositato circa un mese fa, chiedendo lo smantellamento del calendario venatorio lombardo. Per la seconda sezione del Tar di Milano, infatti, il ricorso “laddove non deve essere dichiarato improcedibile, deve essere respinto”. Resta confermato, dunque, tutto ciò che era previsto dalle “Disposizioni integrative al calendario venatorio regionale 2024/2025” in merito a specie cacciabili, carnieri giornalieri e stagionali, date di chiusura e giornate integrative per la caccia da appostamento.

Nonostante questo, però, il 14 settembre, con decreto numero 1067 del presidente della seconda sezione Maria Ada Russo, il Tar lombardo aveva accolto la richiesta di sospensiva delle sigle animaliste, sospendendo la caccia all’avifauna fino al 1° ottobre, in quanto l’apertura del 15 settembre sarebbe stata in contrasto con il parere espresso da Ispra. È proprio questo punto che il Tar ha ritenuto improcedibile, in quanto accogliendo la richiesta di sospensiva “Le associazioni esponenti hanno così ottenuto, per effetto della misura monocratica, il “bene della vita” alle quali aspiravano, per cui non hanno di fatto più alcun interesse a coltivare le suindicate censure”. Occorre evidenziare, però, come nella medesima sentenza il Tar abbia stabilito che i pareri dell’Ispra “non hanno natura vincolante, anche se le Regioni possono discostarsi dai medesimi soltanto attraverso un’adeguata e congrua motivazione, posto che si tratta di pareri provenienti dall’ente istituzionalmente competente in materia”. Si potrebbe pensare, quindi, che anche la richiesta di posticipare l’apertura fosse altrettanto infondata, ma nel frattempo, prima di analizzare i fatti, il Tar ha comunque deciso di sospendere la caccia, di fatto accontentando la richiesta delle sigle animaliste. A rimetterci, ovviamente, sono stati sempre i cacciatori, che hanno perso più di due settimane di caccia senza alcun risarcimento, a dimostrazione di come i meccanismi della giustizia amministrativa spesso si rivelino favorevoli agli insensati ricorsi animalisti.

Curiosa anche la decisione del Tar di compensare le spese (per chi non fosse pratico con il “legalese”, ciascuna delle parti deve sostenere il costo delle proprie spese legali), per via della “complessità delle questioni dedotte”. In parole povere, visto che il tema è complesso e le questioni sono di difficile comprensione, benché avessero torto su tutta la linea, i ricorrenti dovranno pagare solamente le spese dell’avvocato che li ha assistiti. Considerando che questi “ricorsi temerari” siano diventati ormai la normalità in molte regioni italiane, non sarebbe finalmente giunto il momento da parte dei tribunali amministrativi di dare un segnale, condannando quantomeno i ricorrenti a pagare le spese? Sembra, infatti, che la fondatezza del ricorso agli animalisti interessi ben poco, perché nel frattempo, pur avendo torto, hanno ottenuto il loro scopo, impedendo, anche se soltanto temporaneamente, ai cacciatori di esercitare l’attività venatoria.

Chi paga, quindi? Sicuramente non gli animalisti. Pagano i cacciatori che si sono visti privati di alcune giornate di caccia senza ragione e paga la collettività per le spese sostenute dall’avvocatura della regione.

Venendo alle note positive, la sentenza del Tar lombardo ha rigettato il ricorso anche in merito alla questione di costituzionalità dell’attività venatoria posta dalla modifica dell’articolo 9 della Costituzione, che prevede che “La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Secondo i ricorrenti, infatti, la nuova norma costituzionale vieterebbe l’attività venatoria, che si porrebbe in contrasto con la tutela degli animali. Il Tar, invece, ha ritenuto questa posizione infondata, in quanto “la norma dell’art. 9 della Costituzione, ancorché inserita nei Principi Fondamentali di quest’ultima, appare di carattere programmatico e non immediatamente precettivo, creando una riserva di legge statale sulle modalità di tutela degli animali e rinviando quindi l’individuazione concreta di tali forme di tutela alle scelte del legislatore statale”. Il Tar ha motivato la sua decisione anche riconoscendo come “L’attività venatoria è praticamente coeva alla storia umana e sebbene abbia perso ormai il suo carattere originario di prevalente – se non addirittura esclusiva – fonte di sostentamento delle comunità, rappresenta parimenti una parte della tradizione sociale e culturale italiana, senza contare che la caccia persegue oggi una finalità non solo ricreativa ma anche di misura di conservazione del patrimonio animale”.