La settima sezione penale della Cassazione è tornata a occuparsi del porto abusivo di coltello, con una ordinanza che sembra confondere le acque piuttosto che schiarirle…
Con ordinanza n. 25525 del 9 settembre 2020, la settima sezione penale della corte di Cassazione è tornata a occuparsi dell’annosa vicenda del porto abusivo di coltello. Nella fattispecie, è stata chiamata a decidere sulla richiesta di ricorso in Cassazione da parte di un cittadino che era stato trovato in possesso, per la strada, di un coltello e condannato in appello per il reato di porto abusivo d’armi ex articolo 699 c.p., anziché, come eccepito nel ricorso, per il porto abusivo di uno strumento atto a offendere, come previsto dall’articolo 4 della legge 110/75.
La corte ha respinto il ricorso come manifestamente infondato, considerando che “ai fini della qualificazione del coltello quale arma propria o arma impropria, deve farsi riferimento, rispettivamente, alle caratteristiche cioè alla presenza o alla assenza della punta acuta e della lama a due tagli, tipica delle armi bianche corte, mentre sono irrilevanti le particolarità di costruzione dello strumento – Sez. 1, n. 10979 del 03/12/2014, dep. 2015, Campo, Rv. 262867; con una pronuncia appena precedente si è conformemente fissato il discrimine di qualificazione come arma propria o impropria di un coltello nell’avere questi o meno la punta acuta e la lama a due tagli, precisando che il porto, nell’un caso, è punito ai sensi dell’art. 699 cod. pen., e, nell’altro, è incriminato dall’art. 4 L. n. 110 del 1975; Sez. 1, n. 19927 del 09/04/2014, Teti, Rv. 259539; Sez. 1, n. 12750 del 27/02/2019, Tarantino”. La corte ha quindi considerato che “Spetta al giudice di merito dare una descrizione complessiva dell’arma portata in luogo pubblico, in modo che essa ricada nell’una o nell’altra ipotesi e, quando tale valutazione è svolta in modo da evidenziare le caratteristiche come la «punta acuminata a due tagli» dell’arma, la lunghezza della lama di 10 cm ed il fatto che sia dotata di un meccanismo di scatto/blocco della lama, che si pone così in assetto con l’impugnatura fino a raggiungere la misura complessiva di 22 centimetri, ritiene la Corte che vi sia perfetta coerenza della valutazione dei giudici di merito con la suddetta giurisprudenza di legittimità, che considera l’arma come propria, sicché il porto è vietato in ogni caso e non è nemmeno necessario per i giudici di merito valutare la giustificazione dell’imputato (giustificazione che, per di più, nel caso di specie, non era stata data alla polizia giudiziaria nell’immediatezza del ritrovamento dell’arma, come è richiesto dalla giurisprudenza sull’art. 4 citato, invocato dal ricorrente)”.
L’ordinanza appare forse foriera di maggior confusione sulla materia, anziché essere chiarificatrice. Nella prima parte della sentenza infatti i giudici evidenziano come il discrimine tra “arma” e “strumento atto a offendere” debba essere circoscritto esclusivamente alla presenza o meno della punta acuminata congiunta al doppio filo della lama (il che contraddistingue in effetti il pugnale e non il coltello), sottolineando l’irrilevanza delle caratteristiche costruttive dello strumento. Poi però nell’elencare gli elementi presi in considerazione da parte della corte d’appello, si evidenziano essere stati essi non esclusivamente circoscritti alla presenza del fatidico doppio filo, bensì anche “la lunghezza della lama di 10 cm” e “il fatto che sia dotata di un meccanismo di scatto/blocco della lama” (essendo peraltro i due dispositivi assai differenti tra loro, tra l’altro).
Insomma, l’impressione è abbastanza sconfortante: da un lato si riconosce che il giudice di merito abbia evidentemente una competenza tecnica nello stabilire cosa sia “arma” e cosa sia “coltello”, dall’altra tuttavia si fa un minestrone degli elementi tecnici che dovrebbero, o no, differenziare appunto l’arma dal coltello.