Al cittadino detentore di armi non è richiesta solo una condotta limpida dal punto di vista penale, bensì anche una scrupolosa diligenza per quanto riguarda la gestione delle scadenze e dei quantitativi previsti dalla legge in materia di detenzione di armi. Così, un cittadino al quale è stato contestato di non aver rispettato il termine di 72 ore nella presentazione della denuncia in seguito all’acquisto di un’arma comune e di aver (temporaneamente) superato il limite di armi comuni detenibili, si è visto notificare il divieto di detenzione di armi ex art. 39 Tulps dalla prefettura. Il cittadino, contro il provvedimento, ha dapprima presentato ricorso al Tar e, dopo la soccombenza in quella sede, ha presentato ricorso al Consiglio di Stato. Il tribunale amministrativo di secondo grado, con sentenza n. 03700/2021 dell’11 maggio 2021 emanata dalla sezione terza, ha respinto il ricorso, così argomentando: “Gli addebiti fattuali mossi al ricorrente trovano oggettivo e documentale conferma negli esiti dell’istruttoria disposta dal giudice di primo grado con ordinanza n. -OMISSIS-. Gli elementi documentali sui quali fondano detti rilievi avrebbero potuto essere superati dall’allegazione di una prova contraria, che tuttavia non può rintracciarsi nelle mere allegazioni difensive svolte nel ricorso di primo grado e rimaste del tutto prive di riscontro. Appurata la consistenza probatoria dei fatti contestati, gli stessi si appalesano di pregnanza qualitativa e quantitativa certamente proporzionata al giudizio di inaffidabilità espresso dalla Prefettura. Giova in proposito ricordare che la valutazione di cui all’art. 39 del r.d. nr. 773/1931 (“…Il prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti (…) alle persone ritenute capaci di abusarne”) è caratterizzata da ampia discrezionalità, avendo come scopo quello di prevenire, per quanto possibile, sia i delitti, sia i sinistri involontari a rischio di essere occasionati dalla disponibilità di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 agosto 2014, nr. 4121). Il giudizio alla base di tale provvedimento di divieto non è, quindi, un giudizio di pericolosità sociale in senso proprio, ma un giudizio prognostico sull’affidabilità del soggetto e sull’assenza di rischio di abusi, per certi versi più stringente del primo, atteso che il divieto può fondarsi anche su situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma che risultano genericamente non ascrivibili a “buona condotta” e che, come tali, lasciano intravedere il rischio di un maneggio non appropriato delle armi (cfr. Cons. Stato, sez. III, 7 marzo 2016, nr. 922; id., 12 giugno 2014, nr. 2987; id., nr. 4121/2014, cit.; id., 19 settembre 2013, nr. 4666). Tenuto conto della già evidenziata ristrettezza del sindacato giudiziale consentito in subiecta materia – alla quale fa da contrappunto la segnalata ampiezza discrezionale del giudizio formulabile dall’amministrazione – devono escludersi nel caso di specie i denunciati difetti di istruttoria e di adeguata valutazione della personalità del soggetto interessato, in quanto la motivazione del provvedimento restituisce il senso di una indagine puntuale ed esaustiva e di una sua conseguente ponderazione del tutto ragionevole ed equilibrata”.
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