Nuova Zelanda: la messa al bando dei black rifle si farà, e subito

Chiesta la procedura d’urgenza per la revisione legislativa delle norme neozelandesi in materia di armi, per mettere al bando le armi lunghe semiautomatiche La primo ministro laburista della Nuova Zelanda, Jacinta Ardern, conferma l’intenzione di mettere al bando le armi lunghe semiautomatiche e in particolare quelle di “aspetto militare” con caricatori ad alta capacità, anzi rilancia, annunciando che il provvedimento sarà adottato con procedura d’urgenza entro l’11 di aprile. “Il 15 di marzo la nostra storia è cambiata per sempre”, ha dichiarato, “di conseguenza dovranno farlo le nostre leggi. Annunciamo a tutti i neozelandesi la volontà di rafforzare la normativa in materia di armi per rendere il nostro Paese un luogo più sicuro”, ha dichiarato.
A quanto sembra, l’intenzione è quella di concentrare la volontà proibizionistica sulle carabine a percussione centrale, scongiurando (ma è ancora da vedersi) la messa al bando delle armi semiautomatiche da caccia a canna liscia (molto utilizzate nella caccia, specialmente agli anatidi) e a canna rigata a percussione anulare, molto utilizzate dagli agricoltori e allevatori nelle campagne.
Le armi messe al bando dovranno essere consegnate dai cittadini neozelandesi che, altrettanto logicamente (almeno in un Paese che intenda definirsi democratico…) dovranno essere indennizzati. Il costo dell’operazione, secondo le prime stime, oscillerà tra i 100 e i 200 milioni di dollari neozelandesi, corrispondenti a una cifra tra i 70 e i 140 milioni di dollari statunitensi. Per chi sarà trovato in possesso di un’arma vietata nel periodo successivo a quello previsto per la consegna, sarà comminata una multa di 4 mila dollari e fino a 3 anni di reclusione.

Se ci è consentito un commento, ancora una volta (come già capitato in Unione europea con la genesi della direttiva 2017/853), la politica (meglio, “certa” politica) sceglie di adottare una risposta demagogica e di grande effetto propagandistico per contrastare la pazzia individuale. A fronte del costo sicuramente elevato per la collettività derivante dalla messa al bando di questo tipo di armi, la sicurezza che ciò consenta di prevenire ulteriori “mass shooting” o comunque attentati istigati dall’intolleranza e dalla follia non può essere garantita. Ancora una volta, quindi, si sceglie la via “facile”, cioè quella di “vendere” alla pubblica opinione un provvedimento che limita una libertà individuale, ma in realtà non garantisce la sicurezza di nessuno. È appena il caso di ricordare che lo sciagurato attentatore delle moschee ha egli stesso dichiarato che il medesimo, tragico bilancio avrebbe potuto conseguirlo con mille strumenti diversi e alternativi rispetto alle armi che ha utilizzato; è altrettanto vano ricordare che accanto alle armi da fuoco, il team di pazzi furiosi che ha fatto questa strage insensata aveva anche cariche esplosive, che non si comprano in armeria. Ma tutto questo non ha alcuna utilità, perché la decisione è stata presa a livello ideologico e propagandistico, non certo per assicurare davvero la sicurezza da parte dei cittadini.
Dispiace constatare che, anche in questo caso, un singolo episodio che vede coinvolto uno strumento (l’arma da fuoco) sia considerato più che sufficiente per creare ad hoc una normativa che metta al bando in modo indiscriminato e generale questo tipo di arma. Volendoci spostare a esempi a noi più vicini, sarebbe come se dopo la strage perpetrata a Nizza il primo ministro francese avesse annunciato la messa al bando di tutti i camion e gli autocarri o se, giungendo a eventi ancor più vicini a noi, dopo la tentata strage mediante incendio di 51 studenti delle scuole medie alla quale abbiamo assistito ieri nel Milanese, oggi i politici chiedessero a gran voce la revisione delle norme sulla naturalizzazione dei cittadini stranieri. O, continuando a procedere per assurdo, chiedessero la messa al bando delle taniche di benzina. Invece, guarda caso, la parola d’ordine che già stamattina si sente in televisione e si legge sul web è che “non si può generalizzare”. Ed è anche giusto e doveroso, ci mancherebbe. Ma allora, perché le generalizzazioni devono sempre e soltanto essere a senso unico? Perché per alcune categorie di cittadini la generalizzazione è lecita e per altri invece no? Queste sono le domande alle quali, forse, sarebbe opportuno chiamare nel prossimo futuro la politica a fornire risposte.