La sparatoria al tribunale di Reggio Emilia ha colpito l’Italia (e anche il mondo) per le tragiche conseguenze, purtroppo, ma anche per la sua “modernità”. Il manovale albanese di 40 anni Klirim Fejzo aveva già deciso tutto. In tasca aveva una pistola semiautomatica calibro 7,65 (acquistata senza licenza) con due caricatori di scorta, in tutto 21 colpi. Aveva già deciso, voleva farla finita davanti alle figlie adolescenti di cui marito e moglie si disputavano l’affida…
La sparatoria al tribunale di Reggio Emilia ha colpito l’Italia (e anche il
mondo) per le tragiche conseguenze, purtroppo, ma anche per la sua “modernità”.
Il manovale albanese di 40 anni Klirim Fejzo aveva già deciso tutto. In tasca
aveva una pistola semiautomatica calibro 7,65 (acquistata senza licenza) con
due caricatori di scorta, in tutto 21 colpi. Aveva già deciso, voleva farla
finita davanti alle figlie adolescenti di cui marito e moglie si disputavano l’
affidamento dopo la separazione. Ha ucciso la moglie e il cognato. Ha ferito l’
avvocatessa della moglie. Sono intervenuti due giovani poliziotti che stavano
accompagnando gli arrestati per i processi per direttissima. Entrati nell’aula,
hanno intimato a Fejzo di gettare l’arma. Il primo, Stefano Marcaccioli, si è
preso una pallottola in una gamba. L’altro, Fabio Stella, ha risposto al fuoco
con la pistola d’ordinanza e lo ha ucciso. Un’azione necessaria, come ha
spiegato il procuratore della Repubblica, Italo Materia, perché ha fermato
quella che sarebbe potuta essere una strage: «Quel poliziotto ha onorato la sua
professione in una situazione molto difficile».
Non mi piace scrivere di cose scontate: voglio provare a fornire una diversa
chiave di lettura di questo tragico evento. La sparatoria ha in sé molti
elementi di “modernità”. La famiglia spezzata si è trasferita da Sukth, paesino
vicino a Durazzo, in Albania, una decina di anni fa e a Reggio Emilia ha
trovato una vita decorosa. Brava gente, riferiscono, anche se la moglie si era
da tempo rifugiata nel centro antiviolenza del comune e la figlia maggiore
continua a difendere il padre. Ma c’è la crisi coniugale, forse la violenza e
poi il folle, disperato epilogo, direttamente nell’aula del tribunale. Non
procedo oltre con le tesi sociologiche, e non credo c’entrino considerazioni
sui problemi connessi all’immigrazione. Sapete come la penso: il vero
responsabile è sempre l’individuo, non la società né il mezzo con cui vengono
perpetrati reati e omicidi. Ma è istruttivo notare che in questo caso, in cui è
apparsa in modo evidente la differenza tra arma “cattiva” e arma “buona”, per
me tra omicida e forze dell’ordine, i soliti benpensanti commentatori non siano
insorti contro le armi in genere. Alla ricerca di una responsabilità ulteriore,
di una colpa, si sono scagliati contro la mancanza di controlli. Le norme o le
tecnologie per impedire il possesso delle armi sono aggirabili: esisteranno
sempre “coni d’ombra” dove si annidano le armi illegali o dove metal detector e
telecamere non funzionano. L’unica cosa certa, di questo come di altri casi, è
che nessuna norma, nessuna tecnologia possono impedire a un folle o a un
delinquente di uccidere, con o senza armi. Spesso i delitti maturano e si
consumano in ambito famigliare, ma altre volte ne valicano i confini.
Paradossalmente, il fatto che tutto sia accaduto in tribunale ha reso possibile
l’intervento tempestivo delle forze dell’ordine. In questo caso i poliziotti
con il loro intervento professionale e coraggioso hanno dimostrato che tragedie
simili hanno danni “limitati”. Il problema vero si presenta in mille altre
situazioni in cui l’intervento delle forze dell’ordine non può esserci o non
può essere tempestivo. Per questo il cittadino ha il diritto sacrosanto –
qualora voglia – di difendersi. Di questi tempi, in cui pare siano allo studio
da parte del ministero della Giustizia correttivi all’istituto della legittima
difesa, non sembra inutile ricordarlo.