Il Tar del Lazio, sezione prima ter, è tornata a occuparsi sulla questione della congruità delle motivazioni sottese ai provvedimenti di ritiro delle armi o delle licenze di polizia in materia di armi, da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. In particolare, con sentenza n. 04076 del 10 marzo 2023, è stato accolto il ricorso di un cittadino che si era visto ritirare il porto d’armi in seguito a una segnalazione, fatta ai carabinieri, da parte dell’ex compagna, che ha riferito di aver subito minacce e violenza da parte dell’ex partner. La compagna non aveva, tuttavia, sporto querela, chiedendo anche all’autorità di non procedere d’ufficio. Il procedimento penale è stato, comunque, attivato, ma è stato successivamente archiviato su richiesta del pubblico ministero. La corte ha ritenuto fondato il ricorso, con la seguente motivazione: “Per evitare che le armi possano essere portate o detenute da persone moralmente e socialmente inaffidabili il legislatore ha dettato rigidi criteri restrittivi ed affidato all’Autorità di P.S. ampi poteri di controllo. In particolare, l’art. 43 del Tulps delinea talune ipotesi in cui è fatto divieto di concedere “licenza di portare armi”; in tutte le dette ipotesi (v. lett. a, b e c art. 43) la legge si richiama alla intervenuta “condanna” del soggetto per particolari tipi o categorie di reati, tassativamente individuati, cui, in certo senso, viene ricollegata una presunzione assoluta di “cattiva condotta”.
L’ultimo comma dell’art. 43 contiene una norma di chiusura secondo cui la licenza “può” essere negata, tra gli altri, a chi può abusare delle armi. Dunque, l’art. 43 affida il sistema di “sicurezza” sia a provvedimenti negativi vincolati, sia a provvedimenti che richiedono una valutazione di merito dell’Autorità competente.
Peraltro, anche in tema di “licenza di porto d’armi”, trova applicazione (perché espressamente richiamato dall’art. 43) l’art. 11 del T.U. e, in particolare, il suo terzo comma, che prescrive la revoca dell’autorizzazione anche nel caso in cui il titolare perda i requisiti previsti dalla legge ovvero sopravvengano circostanze che ne avrebbero “imposto o consentito il diniego”.
Nella fattispecie oggetto di giudizio, il ricorrente non risulta destinatario di condanne penali, essendosi il procedimento penale che l’ha visto coinvolto concluso con un provvedimento di archiviazione, il che impedisce di ritenere la fattispecie riconducibile all’ultimo comma del precitato art. 43, non emergendo, dalla documentazione agli atti del giudizio, la sussistenza di un concreto rischio di abuso delle armi.
Sul punto, in assenza di qualsiasi motivazione al riguardo da parte della Questura nel provvedimento impugnato, ovvero nella precedente comunicazione ex art. 10 bis della L. nr. 241/1990, assume rilievo quanto rilevato dalle Autorità inquirenti nel provvedimento di archiviazione, nel quale si dà atto che la persona offesa aveva chiesto di non procedere nei confronti del ricorrente per non compromettere il rapporto di coppia e si esclude uno stato di vessazione o alcuno degli eventi in astratto previsti dall’art. 612 bis c.p., oltre al fatto che il ricorrente ha dimostrato di risiedere il Regione diversa da quella di residenza della ex compagna. Alla luce di tali allegazioni, stante la carenza di motivazione del provvedimento impugnato – che si limita a fare riferimento ad una generica condizione di mancanza di affidabilità nell’uso delle armi – deve ritenersi fondata la censura di carenza di motivazione, oltre a quella relativa alla violazione delle prerogative partecipative e difensionali del destinatario del provvedimento”.
È stata disposta la compensazione delle spese di giudizio.