La prestigiosa rivista di cultura gastronomica ha dedicato ampio spazio, sul fascicolo di febbraio, alla caccia e alle carni di selvaggina, con un’analisi approfondita e obiettiva del ruolo del cacciatore e dei benefici correlati alla pratica venatoria
«Ha ancora senso mangiare selvaggina?» questa la domanda, stampata a caratteri cubitali sotto a una bella illustrazione di un cacciatore con il suo cane, sulla copertina del fascicolo di febbraio del Gambero rosso, storica rivista di cultura gastronomica italiana. In prima battuta, osservando la copertina sullo scaffale della mia edicola di fiducia, ho subito pensato al peggio. Quando qualcuno scrive di caccia al di fuori del “nostro ambiente”, d’altra parte, in genere lo fa senza cognizione di causa e, per questo, ritengo che un minimo di diffidenza possa essere comprensibile. Dopo aver letto la versione integrale dell’inchiesta, però, mi sono dovuto ricredere.
L’articolo, a firma di Martina Liverani, è un’analisi approfondita, obiettiva e scevra da qualsiasi pregiudizio della realtà venatoria attuale, del ruolo del cacciatore e, soprattutto, dei benefici collegati al consumo di carni di selvaggina. «Di carne ne va mangiata sempre meno e sempre meglio» scrive Martina Liverani «Su questo siamo d’accordo. Ma quella che mangiamo deve essere etica, sostenibile, se possibile rinnovabile, rispettosa dell’ambiente e degli animali. Nonostante ci siano ancora tante antiche superstizioni, proprio la caccia è la risposta più idonea a questi requisiti». Il consumo di carni di selvaggina viene presentato come una “terza via” tra chi sceglie di non mangiare carne e chi, invece, ne mangia senza porsi domande. Un consumo etico e consapevole, da parte di chi la natura la conosce in modo approfondito, ne comprende e rispetta le leggi e sceglie di provvedere personalmente all’approvvigionamento delle carni di cui si nutre. Carni caratterizzate da una filiera corta e controllata, da un benessere assoluto di animali nati e cresciuti liberi, abbattuti in modo rapido e preciso, senza sofferenze e stress inutili.
Nell’articolo si parla molto di caccia di selezione, descritta come una caccia che riduce al minimo l’impatto sulla popolazione selvatica e minimizza il disturbo alle altre specie. C’è spazio anche per il punto di vista di alcuni cacciatori e si parla di caccia, ma anche di tutto quello che c’è dietro a un abbattimento, all’impegno dedicato ai censimenti, alla gestione del territorio e del patrimonio faunistico, «per la caccia di selezione servono serietà e impegno non è sempre un’attività conveniente per i cacciatori», scrive l’autrice. Si parla anche di formazione dei cacciatori, dei corsi e degli esami che ciascuno è tenuto a superare, dell’investimento in termini economici e di tempo, dei sacrifici e dell’impegno che chi pratica l’attività venatoria ben conosce.
Articoli come questo sono fondamentali per far conoscere la realtà della caccia anche al di fuori dei nostri confini, per riqualificare l’immagine del cacciatore afflitta da decenni di propaganda avversa (e anche dalle azioni di alcuni “cacciatori” che personalmente fatico a definire tali) e per sfruttare una materia prima di qualità indiscussa come la selvaggina per conquistare l’appoggio di chi non conosce e non comprende la caccia pur consumando carne. Per citare l’inchiesta del Gambero rosso, «Le antiche resistenze ideologiche sulla figura del cacciatore possono e devono essere spazzate via»!