Sono ancora oscuri i contorni della drammatica serata che, a Roma, si è conclusa con la morte di Martina Scialdone, avvocato 35enne, uccisa con un colpo di pistola dal compagno Costantino Bonaiuti, dal quale aveva deciso di separarsi e che evidentemente non aveva accettato la realtà. Poiché Bonaiuti era un legale possessore di armi (e praticava il tiro al poligono di Tor di Quinto), l’attenzione si è prontamente spostata dal dramma di una vita spenta in modo così violento e nel fiore degli anni dal classico compagno-padrone, alla consueta e demagogica crociata contro il possesso legale di armi. A guidarla, ancora una volta, il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri (quello che “le armi dovrebbero averle solo le forze dell’ordine”, ricordate?), il quale su Facebook ha chiosato: “dovremmo fare una riflessione sulla necessità di limitare il possesso delle armi, riducendone il numero in circolazione per aumentare la sicurezza di tutti”.
Già, perché le armi legalmente detenute, secondo il ritornello “disarmista” di casa nostra, sarebbero una “tentazione irresistibile” per chi intende compiere un femminicidio, agevolando il delitto d’impeto. Anche queste parole le ricordiamo molto bene.
Peccato che in questo caso, di impeto non ci fosse proprio nulla. Anzi, la “serata” è stata attentamente programmata nel proprio esito finale, dall’autore del gesto vigliacco e criminale. Il quale infatti si è premunito di portare con sé la pistola al ristorante, dove aveva appuntamento con la donna per un “ultimo chiarimento”. Tanto è vero che, in questo momento, gli inquirenti già hanno contestato anche la premeditazione.
Non si può evitare di fare un parallelismo, a proposito di premeditazione, con quanto avvenuto lo scorso agosto, non a Roma bensì a Bologna, dove Alessandra Matteuzzi è stata anch’essa uccisa con premeditazione dall’ex compagno, solo che quest’ultimo non ha usato una pistola, legalmente detenuta o meno, bensì un martello. E l’esito, purtroppo, è stato il medesimo. Solo che, guarda caso, evidentemente il martello “vale” per compiere un femminicidio, mentre la pistola “non vale”. Nessuno si è scagliato, in quel caso, contro i “troppi martelli in circolazione in Italia”, anche perché probabilmente gli avrebbero dato del pazzo o, semplicemente, dell’idiota. Così come altrettanto surreale sarebbe affermare (e guarda caso, nessuno si azzarda a farlo…) che quando un automobilista uccide perché in preda ai fumi dell’alcool, è perché “ci sono troppe enoteche in giro”.
Anzi, per gli alcoolici è persino consentito fare pubblicità in televisione, basta ammonire (in basso e in piccolo) di “bere responsabilmente”. Guarda caso, bere troppo (quindi “non responsabilmente”) e mettersi alla guida è una scelta e una responsabilità individuale, mentre commettere un reato con un’arma legalmente detenuta diventa, sempre, una responsabilità collettiva, ovviamente secondo alcuni (meglio, secondo sempre gli stessi).
Esiste la possibilità di migliorare la normativa in materia di armi? Ovviamente sì e su queste stesse pagine abbiamo evidenziato numerosi possibili campi di intervento che, come abbiamo più volte sottolineato, tra gli elementi fondamentali prevederebbero la necessità di una interconnessione delle comunicazioni tra l’autorità di pubblica sicurezza e l’autorità sanitaria. Per esempio, anche in questo caso sembra che l’assassino avesse riscontrato di soffrire di un tumore ai polmoni che (sempre volendo dar retta alle recenti ricostruzioni, ancora da verificare e, anzi, in parte già smentite) si stava estendendo al cervello.
Il settore degli appassionati d’armi, è contro la creazione di regole più moderne che regolino il possesso delle armi stesse? Assolutamente no. Il settore è contrario a impostare il dibattito non sul fatto che in Italia possano avere le armi coloro i quali hanno titolo (e dimostrano, nel tempo, di avere titolo) per detenerle, bensì su una criminalizzazione costante, perniciosa, demagogica, ignorante, sul possesso di armi in sé, che proprio in questi frangenti evidenzia la propria vera natura e impedisce, ostacola, la messa a punto di nuove regole che siano veramente efficienti ed efficaci, ulteriormente migliorative dell’attuale condizione che, comunque, è opportuno ribadirlo, già garantisce una incidentalità che è di incidenza infinitesimale rispetto al totale dei possessori di armi.
È quindi la premessa, ancora una volta, a essere sbagliata: l’obiettivo non è “limitare il numero di armi”, bensì ancora una volta, garantire che chi le armi le vuole detenere abbia le carte in regola e chi le carte in regola non le ha (anche per un sopraggiunto problema di salute), le armi non le possa detenere (anche, in determinate circostanze, in via temporanea, fintanto che la sua situazione non si risolva). Senza isterismi verso il settore, così come si fa per la produzione e commercializzazione di alcoolici, di automobili e… di martelli. Si tratta di capire se la politica, o meglio questa politica, che dà aria ai denti in concomitanza di queste tragedie, sia in grado di farsi portavoce di riforme concrete ed efficaci o se invece sia soltanto capace di utilizzare strumentalmente questi fatti per proporre riforme esclusivamente vessatorie per il settore, che (ed è, attenzione, il punto focale della questione) non hanno alcun risvolto utile in termini di sicurezza sociale. Esempi, in questi anni, ne abbiamo avuti fin troppi, dal famigerato ddl Amati-Granaiola fino ad arrivare all’attuale legislatura con il ddl Verini: provvedimenti autoreferenziali scritti da chi non ha la più pallida idea di come lavori un ufficio di una questura o una armeria, di come sia fatto un poligono e di come funzioni realmente la normativa.
Al riguardo del tragico evento, sono emblematiche le parole che ha pronunciato l’Avvocato Valentina Ruggiero, anche lei esperta in diritto di famiglia (come la vittima), del Foro di Roma: “sono state rispettate tutte le cautele che noi avvocati invitiamo a tenere: l’incontro in un luogo pubblico, alla presenza di altre persone, e al quale non è andata da sola, ma con qualcuno di cui sapeva di potersi fidare. Indicazioni che, di certo, anche lei si sarà trovata a dare alle sue assistite. Martina Scialdone non era affatto una sprovveduta, era una professionista, un’esperta che, con ogni probabilità, si era trovata a trattare la materia dei femminicidi, direttamente o indirettamente. Eppure, tutto questo non è bastato a salvarle la vita. L’unica strada percorribile per contrastare il triste fenomeno dei femminicidi è quella dell’educazione e della prevenzione. Se le persone presenti al ristorante, dal personale di sala agli altri clienti, sin dall’inizio degli atti aggressivi avessero compreso che la situazione stava degenerando, forse le cose sarebbero andate diversamente imparare ad interpretare i segnali di allarme che precedono atti di intemperanza che possono degenerare in violenza è fondamentale. Quando mi è capitato di notare in strada un soggetto che alzava il tono della voce o che aveva un atteggiamento prepotente contro qualcuno più debole mi sono fermata e con discrezione ho assistito, atteso per vedere se effettivamente mi trovavo di fronte ad un episodio critico, e se potessi intervenire o contattare le forze dell’ordine. Non voltiamoci mai dall’altra parte perché quella donna potrebbe essere nostra figlia, nostra sorella, o potremmo ritrovarci noi stessi nel ruolo di vittima”.