Il tribunale amministrativo dell’Umbria si è trovato a decidere circa il ricorso presentato da un cittadino che si è visto irrogare un divieto di detenzione armi ex art. 39 Tulps dalla locale prefettura e il ritiro del porto di fucile per uso caccia dalla questura, perché “al termine di una giornata di caccia, mentre tornava verso la sua auto con il fucile in mano aperto, ma con il colpo in canna, scivolava su terreno sconnesso, così da provocare la chiusura involontaria dell’arma, da cui accidentalmente partiva un colpo che lo attingeva al piede sinistro”, con conseguente ferita lacero-contusa al piede sinistro con frattura del metatarso e prognosi di 40 giorni.
Tra le motivazioni del ricorso, oltre a presunte irregolarità procedurali circa la comunicazione di avvio del procedimento e congrua esposizione delle motivazioni alla base di esso, anche la motivazione secondo la quale “mancherebbero i presupposti di cui agli artt. 10, 11 e 39 Tulps quanto all’assenza di concreti abusi da parte del ricorrente nell’uso delle armi”, laddove invece la prefettura ha controdedotto che “anche un solo fatto indice di colposità e negligenza nell’uso delle armi è idoneo a giustificare l’adozione di un provvedimento avente natura cautelare come il divieto di detenzione armi; in particolare è contrario ad elementari norme di prudenza procedere su di un terreno accidentato con il fucile carico, benché aperto”.
Il Tribunale amministrativo regionale ha respinto il ricorso, argomentando che “Nel caso de quo il ricorrente non ha posto in essere condotte volontarie neppure astrattamente riconducibili ad ipotesi di reato, ma si deve convenire con la valutazione operata dalla Prefettura secondo cui il -OMISSIS- si è senz’altro dimostrato negligente circa il buon uso delle armi: l’esplosione del colpo di fucile in circostanze siffatte era un fatto improvviso ma non certamente imprevedibile, specialmente su di un terreno accidentato e con l’eventuale presenza di fango, dato che per azzerare il rischio sarebbe bastato osservare le buone pratiche nell’uso delle armi e procedere con arma scarica. Una condotta come quella concretamente adottata appare coerente con la ritenuta inaffidabilità circa il buon uso delle armi perché fortuitamente il colpo attingeva il piede del ricorrente senza provocare particolari danni, ma in presenza di terzi ben avrebbe potuto cagionarne il ferimento o peggio. Sotto tale profilo non sussistono né il denunciato difetto di istruttoria né tantomeno il difetto di motivazione, che seppure sintetica rende autenticamente percepibili le ragioni poste a fondamento del divieto di detenzione delle armi: è evidente infatti che la condotta negligente e colpevole è consistita precisamente nel transitare, ad attività venatoria conclusa, su terreno sconnesso e potenzialmente foriero di caduta con arma carica, quindi idonea ad offendere. Neppure è meritevole di condivisione la censura inerente l’omissione della comunicazione di avvio di procedimento: secondo giurisprudenza consolidata, i provvedimenti in materia di armi, per la loro natura precauzionale e preventiva, in quanto volti a prevenire ogni pericolo per la pubblica e privata incolumità, sono portatori ex se di una esigenza di celerità del provvedere che consente, in applicazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, di ovviare alla comunicazione di avvio del procedimento. (cfr. tra le più recenti T.A.R. Umbria, 12 marzo 2024 n. 172, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 31 agosto 2023, n. 2600, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I , 02 novembre 2022, n. 1061). Dunque correttamente l’Autorità di pubblica sicurezza riteneva di prescindere da tale incombente. A fronte di tali considerazioni, non appare censurabile né sotto il profilo della ragionevolezza né sotto quello della proporzione la scelta, di natura squisitamente prudenziale, di privare della disponibilità di armi da fuoco un soggetto che, sebbene esente da mende oltre che da pregiudizi penali, adotti comportamenti contrastanti con le regole di rigorosa diligenza che devono informare la detenzione delle armi. Si precisa peraltro che l’attività venatoria, sicuramente apprezzabile quale attività ricreativa consentita e regolamentata dallo Stato, non può tuttavia essere qualificata quale diritto inviolabile della persona, e nel bilanciamento con la pubblica sicurezza è sicuramente recessivo. Né può essere indice di sproporzione del provvedimento la circostanza che l’impossibilità di esercitare l’attività venatoria costringa a provvedere al sostentamento del cane da caccia, elemento che non può costituire pregiudizio grave e irreparabile. Infine, con specifico riferimento all’impugnativa della revoca del porto di fucile ad uso venatorio, è stato chiarito che l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea in sé a giustificare il ritiro della licenza, addirittura senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. III, n. 1814/2017, n. 10597/2023 e n. 10618/2023)”.