Dal nervosismo del Consiglio federale si è passati al vero e proprio panico politico in vista del referendum svizzero sulla normativa in materia di armi: tanto da essersi costituita una vera e propria coalizione anti-referendaria di partiti
Si avvicina la data fatidica del 19 maggio, quando cioè i cittadini svizzeri saranno chiamati al referendum sull’eventuale abrogazione della modifica sulla normativa in materia di armi. L’unico partito che ha appoggiato apertamente, fin dall’inizio, la consultazione referendaria (promossa da una federazione di associazioni di tiratori, aziende, poligoni eccetera) è l’Udc, ma la notizia di oggi è che si è ufficialmente schierato contro il referendum (quindi a favore del recepimento nel diritto svizzero della direttiva europea 2017/853) un vero e proprio comitato politico antagonista, costituito dai partiti Plr, Ps, Ppd, Pvl, Verdi, Pbd e Pev. Già il consiglio federale svizzero, qualche settimana fa, aveva rilasciato dichiarazioni che lasciavano intendere un certo nervosismo sul tema: il comitato ha invece allestito un vero e proprio fuoco di fila nella sua prima conferenza pubblica, sottolineando che “La votazione non riguarda solo le armi, ma anche gli accordi di Schengen e Dublino. La Svizzera deve far propria la nuova direttiva europea se vuole rimanere parte dei relativi spazi. In caso di voto contrario, la cooperazione terminerà automaticamente, a meno che tutti gli Stati membri dell'Ue e la Commissione europea non accettino, entro 90 giorni dalla notifica della Svizzera, di fare una concessione a Berna”. Alcune delle affermazioni dei portavoce di questo comitato, lasciano tuttavia alquanto perplessi: “Senza questi accordi”, ha infatti argomentato il consigliere agli Stati Daniel Jositsch (Ps), “la Svizzera si troverebbe ad affrontare un grave problema di sicurezza e sarebbe isolata a livello internazionale”. Strano a dirsi, come minimo, per un Paese che pur non facendo parte dell’Unione europea continua a vantare il tasso di criminalità più basso di tutti i Paesi d’Europa (intesa in senso geografico, non politico) e che vede risalire al 1970 l’ultimo attentato terroristico (di matrice palestinese) subìto. Il presidente del partito Pbd, Martin Landolt, ha inoltre rassicurato sul fatto che “Nessuno sarà disarmato e non c'è alcun diktat europeo”, salvo però essersi evidentemente “dimenticato” del fatto che ai militari congedanti continuerà a essere consentito detenere il proprio fucile d’assalto, ma i loro eredi non potranno detenerlo (se non è “disarmare” questo, allora davvero non si capisce cosa lo sia). Ovviamente non si poteva non agitare lo spauracchio economico conseguente all’uscita dallo spazio Schengen, e ci ha pensato Olivier Francais (Plr), osservando che “Se la revisione fosse respinta, la Svizzera perderebbe tutti i vantaggi derivanti dall'adesione a Schengen. Il ritorno delle frontiere nazionali avrà un impatto diretto sull'economia, in particolare sul settore turistico. Posti di lavoro sono minacciati”.
A nessuno dei contrari al referendum è apparentemente venuto in mente di considerare che la contrarietà è nei confronti di una norma che si propone un risultato (il contrasto al terrorismo e alla criminalità) ma ne consegue in realtà, per la stragrande maggioranza dei contenuti, un altro (l'aumento delle restrizioni nei confronti dei cittadini legali detentori, in particolare detentori di certe tipologie di armi) e che per questo motivo è stato, caso quasi unico tra gli atti dell'Unione europea, sottoposto a un ricorso alla corte europea di giustizia, tuttora pendente. Evidentemente anche in Svizzera si ritiene che una norma pressoché inutile per il conseguimento degli scopi prefissati, talmente malfatta da determinare il mutamento di categoria di un'arma a seconda del caricatore che di volta in volta vi è inserito, sia comunque da adottare in modo acritico, perché "ce lo chiede l'Europa"…