Ancora pochi giorni or sono, il Manifesto ha pubblicato la consueta sparata (è il caso di dirlo…) sul rapporto tra i femminicidi e il legale possesso di armi, riprendendo una affermazione del Censis secondo la quale “Avere un’arma in casa (legale, evidentemente, ndr) rappresenta una formidabile tentazione di usarla e molti assassini sono in possesso di regolare licenza”.
A scombinare questo sillogismo, che si pretenderebbe infallibile, c’è tuttavia la vicenda drammatica di Rita Amenze, la giovane di origini nigeriane che pochi giorni fa è stata uccisa dall’uomo, con una lunga storia di violenze sulle precedenti compagne, che aveva sposato nel 2018: Pierangelo Pellizzari.
Pellizzari ha posto fine ai giorni della compagna, la quale peraltro con il suo lavoro lo manteneva, con quattro colpi di pistola: uno alla schiena, tre al volto. Una pistola detenuta illegalmente (poi fatta ritrovare dallo stesso omicida), giacché guarda caso la licenza di porto d’armi e le armi legalmente detenute gli erano state ritirate nel 2008. Di certo non sarebbe stato possibile per lui richiedere nuovamente un porto d’armi, specialmente dopo la condanna, nel 2018, per minacce aggravate e lesioni nei confronti dell’ex fidanzata del 2015. Proprio nel 2018 si era sposato con Rita, dando il via a un rapporto ossessivo nel quale pretendeva di controllare la moglie in ogni suo spostamento, accompagnandola al lavoro e restando poi in zona per tutta la giornata a “perlustrare” intorno al suo luogo di occupazione.
Pellizzari, disoccupato, si opponeva anche a che la moglie facesse arrivare dalla Nigeria i tre figli avuti da un precedente legame e i litigi erano sempre più frequenti. La donna, ormai stanca di quella vita, aveva quindi deciso di lasciarlo, trasferendosi da un’amica. Da qui, evidentemente, il progetto di “vendetta” maturato nella mente criminale dell’uomo, che ha perseguito il proprio progetto utilizzando, appunto, un’arma illegale. Un altro caso, che va ad aggiungersi ai numerosi altri (come il caso Filippone, come il caso Ballesio, per fare solo due esempi eclatanti) nel quale la disponibilità (o mancata disponibilità) dello strumento è conseguente e successiva al disegno criminoso, e non fantomatica ispirazione. Addirittura, nel caso Filippone, l’assassino ha precipitato la moglie (dal balcone) e la prole (da un cavalcavia) mentre era in attesa del porto d’armi. Nel caso Ballesio, l’ex marito era uscito fresco di prigione e si è procurato una pistola illegale con la quale ha massacrato la donna, nonostante le ripetute denunce di lei.
Anche un altro recente femminicidio, compiuto questa volta con un’arma legalmente detenuta, è emblematico di quanto affermiamo: stiamo parlando dell’omicidio da parte dell’88enne Stelvio Cerqueni, della figlia Doriana. A quanto è risultato finora dagli accertamenti, in questo caso l’omicida ha sparato alla figlia il giorno del compleanno di quest’ultima (la data evidentemente non è casuale e ha un elevato valore simbolico), per rancori e dissapori che affondavano le loro radici addirittura su fatti risalenti a trent’anni addietro. Davvero si vuole, ancora, propalare la teoria del “raptus” maturato all’improvviso mentre oziosamente si contemplava l’arma legalmente detenuta? Davvero si pretende di convincere che un soggetto capace di covare un rancore così assoluto, per un tempo così lungo, si faccia fermare dalla indisponibilità di un’arma legalmente detenuta?
La normativa in materia di armi legali è senz’altro perfettibile, sotto molti aspetti, e affrontare in modo serio e pragmatico la materia, può indubbiamente aiutare a ridurre l’incidenza dei fatti delittuosi commessi con armi legali: utilizzare il possesso legale di armi per banalizzare un fenomeno in piena esplosione come il femminicidio, tuttavia, è un torto che si fa innanzi tutto nei confronti delle vittime, perché la realtà è molto più articolata e complessa, così come complessa è la ricerca delle soluzioni.