Botta e risposta polemico tra il segretario del Sap, Gianni Tonelli, e il quotidiano la Repubblica, che osserva: "chi serve lo Stato non può temere il reato di tortura"
Il segretario nazionale del Sap (Sindacato autonomo di polizia), Gianni Tonelli, ha commentato in modo molto negativo la nuova legge che ha istituito il reato di tortura, argomentando che i poliziotti siano stati trattati “peggio dei pedofili o dei mafiosi, per i quali l’istigazione alla commissione di reati odiosi, compresi quelli di violenza o di omicidio non è punibile, mentre lo è per i poliziotti che a buon fine, invitano un collega a fare una minaccia fasulla a un delinquente, magari per sapere dove ha nascosto una bambina sequestrata. Questo è contrario a uno dei principi fondamentali del nostro diritto penale”. Tonelli ha inoltre sottolineato come sia virtualmente impossibile difendersi dall’accusa di aver provocato “acute sofferenze psicologiche”: “cosa significa sofferenza psicologica verificabile? Da che cosa, da una ricetta medica per farmaci ansiolitici o da una perizia a pagamento? Ogni delinquente può lamentare sintomatologie avendole apprese da Internet” mentre, secondo Tonelli, le lesioni fisiche sono ovviamente dimostrabili, anche quelle che a prima vista non lasciano tracce: “nel caso in cui un delinquente dovesse sostenere di essere stato picchiato con addosso un cuscino per non lasciare tracce, è possibile fare l’esame del sangue Cpk, per rilevare la quantità di enzima prodotto dalle fibre muscolari per i colpi”.
Posizioni che sono state a loro volta criticate sulle pagine del quotidiano La Repubblica da Carlo Bonini, il quale ha argomentato che “Chi serve lo Stato non può temere il reato di tortura”. “In una democrazia matura e in salute”, ha commentato Bonini, “le forze dell’ordine non hanno paura di una legge che introduce il reato di tortura. Non ne possono e non ne devono avere paura. Ancorché quella norma sia pasticciata, perché figlia di un compromesso tanto abborracciato quanto pavido”.
Tonelli ha prontamente risposto alle critiche, argomentando che “noi poliziotti non abbiamo alcun timore con riferimento ai nostri comportamenti, altrimenti non avremmo fortemente richiesto telecamere su divise, auto di servizio e celle di sicurezza. Questo reato di tortura è solo un’accozzaglia confusa che non tutela i torturati nei casi in cui patiscano abusi da chicchessia. Questo perché la sua interpretazione può consentire margini talmente restrittivi da vanificarne lo scopo. Dall’altra parte, invece, è talmente ampia che il diritto deve darne certezza. Il diritto è certezza e si parla di certezza del diritto perché le regole devono essere chiare se vogliamo raggiungere e realizzare la ratio della norma. Se, invece, vogliamo soltanto promuovere manifesti ideologici contro funzioni pubbliche, allora possiamo benissimo proseguire su questa strada”. “Io meglio di lei comprendo l’importanza della trasparenza. In un Paese normale, un tutore dell’ordine o la brava gente non hanno nulla da temere… ma in Italia c’è molto da temere. C’è da temere e lo vediamo tutti i giorni: ogni anno vengono certificati 1.000 errori giudiziari, 30 mila negli ultimi trent’anni”.