Con sentenza n. 5257 del 27 marzo 2023, la sezione prima Ter del Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha accolto il ricorso di una Gpg che si era vista revocare la nomina a guardia giurata e il porto di pistola per difesa personale da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. Il provvedimento era stato giustificato da due episodi: il primo, il deferimento all’autorità giudiziaria della gpg (poi oggetto di un decreto penale di condanna a un’ammenda di 50 euro) per non aver denunciato la variazione di indirizzo di detenzione delle armi, e il secondo per l’avvenuta segnalazione da parte del personale del X distretto di Ps di una lite avvenuta con un collega durante l’orario di servizio.
Il tribunale ha motivato l’accoglimento del ricorso, precisando che “la valutazione di inaffidabilità effettuata dall’amministrazione si basa su due elementi, che, alla luce di una valutazione globale sulla persona del ricorrente, non paiono idonei a scalfire il giudizio di affidabilità costantemente rinnovato dall’Amministrazione fin dal conseguimento del titolo (in data 13.09.2000). Ed invero, quanto alla lite con il collega, l’amministrazione non ha chiarito se l’episodio, per le sue concrete modalità fattuali, abbia ingenerato un pericolo di abuso nell’utilizzo dell’arma da parte del ricorrente; peraltro, la stessa amministrazione ha rappresentato (cfr. memoria del 19.10.2022) che nel susseguente procedimento penale, il Pubblico Ministero ha formulato proposta di archiviazione.
Quanto alla condotta di omessa denuncia di armi munizioni, sebbene il ricorrente sia stato attinto da un decreto di penale di condanna alla pena di euro 50,00 di ammenda per la violazione dell’art. 59 del R.D. nr. 635/1940 e 221 R.D. nr. 773/1931 – avverso il quale è stata proposta opposizione – deve rilevarsi che l’episodicità dell’evento e la scarsa offensività della condotta (desunta dalla esiguità della sanzione e della evidente mancanza di dolo), a fronte di una condotta pluriventennale esente da mende in relazione al mantenimento del titolo, confermano la mancata valutazione, da parte dell’Amministrazione, di tutti gli elementi da considerare ai fini del giudizio sul perdurante possesso delle qualità necessarie al mantenimento della licenza e del titolo.
Quanto al riscontrato difetto di proporzionalità del provvedimento, giova premettere che il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato.
Com’è stato efficacemente statuito dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato Sez. V del 20.2.2017), alla luce di tale principio, nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa un’adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, il principio in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi. La proporzionalità non deve pertanto essere considerata come un canone rigido ed immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa ed, in ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità ed alla legalità. In definitiva, il principio di proporzionalità va inteso “nella sua accezione etimologica e dunque da riferire al senso di equità e di giustizia, che deve sempre caratterizzare la soluzione del caso concreto, non solo in sede amministrativa, ma anche in sede giurisdizionale” (Cons. Stato, sez. V, 21 gennaio 2015 n. 284). Parallelamente, la ragionevolezza costituisce un criterio al cui interno convergono altri principi generali dell’azione amministrativa (imparzialità, uguaglianza, buon andamento): l’amministrazione, in forza di tale principio, deve rispettare una direttiva di razionalità operativa al fine di evitare decisioni arbitrarie od irrazionali. In virtù di tale principio, l’azione dei pubblici poteri non deve essere censurabile sotto il profilo della logicità e dell’aderenza ai dati di fatto risultanti dal caso concreto: da ciò deriva che l’amministrazione, nell’esercizio del proprio potere, non può applicare meccanicamente le norme, ma deve necessariamente eseguirle in coerenza con i parametri della logicità, proporzionalità ed adeguatezza (Cons. Stato, sez. VI, 14 novembre 2014 n. 5609).
Quello della proporzionalità è principio di derivazione comunitaria, previsto all’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e deve essere applicato anche come criterio di interpretazione delle proprie norme nazionali da parte delle autorità degli Stati membri, sia quando questi attuino il diritto UE nei propri ordinamenti giuridici nazionali (Corte di Giustizia, sentenza del 12 dicembre 2019, in causa C-627/19), sia quando la fattispecie oggetto di giudizio non abbia rilevanza diretta per il diritto dell’UE (Corte di giustizia, sentenza 07.09.2006, in causa C-310/04).
La giurisprudenza unionale ha decodificato il principio di proporzionalità scandendone il momento applicativo in tre tappe progressive: sindacato sull’idoneità, sindacato sulla la necessarietà e sindacato sulla proporzionalità in senso stretto o sull’adeguatezza (Corte di giustizia, sentenza 07.09.2006, in causa C-310/04).
Il primo momento, quello dell’idoneità, concerne l’accertamento sulla idoneità dei mezzi impiegati rispetto allo scopo perseguito (Corte giust., sent. 11.03.1987, in cause riun. 279, 280, 285, 286/84).
Il secondo momento, quello della necessarietà, impone che qualora si presenti una scelta tra più misure appropriate, è necessario ricorrere alla meno restrittiva (Corte giust., sentenza 16.10.1991, in causa C-24/90).
Infine, la proporzionalità in senso stretto o adeguatezza attiene alla valutazione comparativa tra l’interesse pubblico perseguito dall’autorità e le posizioni individuali giuridicamente protette e che si oppongono al suo perseguimento (Corte giust., sentenza 28.11.1989, in causa 379/87).
Venendo al caso oggetto del presente giudizio, è opinione del Collegio che i provvedimenti impugnati violino il principio di proporzionalità sub specie di necessarietà/adeguatezza della misura erogata.
In particolare, l’amministrazione non pare aver adeguatamente considerato l’interesse del destinatario del provvedimento e le pesanti ricadute in termini di privazione dei mezzi di sostentamento, per il ricorrente e per la sua famiglia, derivanti dall’esecuzione dei provvedimenti impugnati.
Ed infatti, pur integrando la condotta contestata al ricorrente una violazione delle previsioni di legge in tema di tenuta delle armi e di comunicazione all’Autorità di pubblica sicurezza, astrattamente idonea a determinare l’apertura di un procedimento disciplinare a carico del beneficiario delle autorizzazioni, è evidente la sproporzione tra il mezzo utilizzato e lo scopo perseguito, non potendo conseguire, ad una violazione isolata che non ha dato luogo a concrete situazioni di danno o di pericolo per la sicurezza pubblica o l’incolumità individuale, la definitiva privazione delle licenze e delle autorizzazioni rilasciate molti anni prima e costantemente rinnovate dall’amministrazione.
In sostanza, pure a fronte del carattere del tutto occasionale della violazione contestata, l’amministrazione ha ritenuto di dover emanare un provvedimento direttamente ablatorio delle autorizzazioni, annichilendo l’interesse del destinatario del provvedimento alla continuazione nello svolgimento della propria attività lavorativa.
Non possono peraltro sottacersi le gravi conseguenze che i provvedimenti impugnati sono idonei a produrre in termini di privazioni del sostentamento economico per il ricorrente e per la sua famiglia, dal momento che lo stipendio da guardia giurata rappresenta l’unica fonte di reddito del nucleo familiare.
Deve pertanto ritenersi che l’amministrazione non abbia fatto buon uso del potere discrezionale fornitole in materia dal legislatore, non avendo svolto un’adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione implicante il minor sacrificio possibile e che non ecceda quanto è opportuno e necessario al fine del conseguimento dello scopo prefissato”.