Incassata la “vittoria” per il nodo delle certificazioni sanitarie, altre questioni investono il mondo della vigilanza privata
Per una volta le guardie particolari giurate (ma anche tutti i legittimi detentori di armi) possono intonare l’inno di vittoria visto che, grazie all’intervento sollecitato in particolare da alcune organizzazioni sindacali come la Clas e il Savip, del sottosegretario Nicola Molteni e della senatrice Anna Cinzia Bonfrisco, entrambi della Lega, si è finalmente sciolto il nodo delle certificazioni sanitarie per il riconoscimento dei titoli di polizia.
Nel decreto legge in vigore dal prossimo 14 settembre, infatti, i singoli medici legali potranno tornare regolarmente a certificare le idoneità anche al di fuori delle strutture medico-sanitarie di appartenenza, semplificando così l’iter procedurale per i singoli con un sensibile abbattimento dei costi anche per le aziende.
Il settore della vigilanza, tuttavia, rimane ancora afflitto da serie problematiche a causa soprattutto della farraginosa burocrazia che lo attanaglia che dà modo agli istituti di vigilanza di speculare alle spalle dei lavoratori così come a “travet” delle questure di decidere “motu proprio” del loro futuro lavorativo.
Non ultima la direttiva che impone (non si capisce perché!) il rilascio dei titoli e i relativi rinnovi debbano essere assolti dalle prefetture e dalle questure di residenza dei singoli e non più dalle territoriali dove ha sede l’istituto di vigilanza. Ciò comporta che l’interessato, dipendente di un’azienda con sede magari a Roma, avendo lui però la residenza a Milano, dovrà ivi recarsi all’atto del rinnovo per presentare la documentazione richiesta oppure spedirla tramite posta raccomandata.
Sarebbe legittimo pensare che, essendo i titoli di polizia strettamente vincolati alla dipendenza dall’istituto, di tale incombenza si occupi l’azienda stessa, come anche esplicitamente prevede il contratto collettivo di lavoro, invece ci giunge notizia che più di un istituto rimetta tale onere ai lavoratori interessati che se ne dovranno far carico in tutta autonomia.
Come se non bastasse le guardie giurate, all’atto del riconoscimento della loro qualifica, sono soggette alla discrezionalità delle varie questure che con scrupolosa intransigenza devono valutare i requisiti morali dei singoli. Riteniamo che in uno Stato di diritto, semmai, a stabilire la moralità di un cittadino, dovrebbe essere la magistratura rifacendosi a sentenze di condanna opportunamente motivate e non l’interpretazione del funzionario di turno.
Ciò per evitare che detta discrezionalità si trasformi in arbitrio recando non pochi problemi al malcapitato di turno che si vede negare un titolo necessario per poter lavorare e sostentare la propria famiglia. Di casi analoghi, ma meglio sarebbe definirli paradossali, esiste un ricco repertorio: come quello di Tizio che si vede negare il rinnovo perché pende su di lui una denuncia di abusivismo edilizio a causa di una veranda eretta sul proprio terrazzo, oppure Caio, anche lui condannato alla disoccupazione da un integerrimo funzionario, poiché denunciato per non aver onorato gli alimenti mensili alla consorte separata, ma ancora Sempronio che alla “veneranda” età di 56 anni e dopo un lungo periodo di inattività con un figlio a carico e un gran bisogno di lavorare deve versare lacrime amare in quanto l’essere stato sorpreso ben 40 anni prima (a 16 anni!) a “tirare” uno spinello gli viene riconosciuto quale motivo ostativo al rilascio dei titoli.
Casi reali per i quali il Tar ha pensato a respingere i dinieghi anche con un esoso esborso risarcitorio del ministero. Chissà se questi così severi parametri di moralità siano applicati anche agli appartenenti alle forze di polizia dello Stato. oppure siano superati per evitare carenze croniche di personale!
Invochiamo quindi che al più presto siano riviste le modalità di rilascio di detti titoli con norme scritte e ben definite che non lascino spiragli a rischiose interpretazioni personali.
Questa dovrà essere la nostra prossima battaglia!