In apertura di fiera, l’Anpam ha organizzato (come già l’anno scorso) un interessante convegno giuridico, dal titolo “Libertà e sicurezza nella disciplina delle armi civili e sportive”. Cosa hanno detto?
In apertura di fiera, l’Anpam ha organizzato (come già l’anno scorso) un interessante convegno giuridico, dal titolo “Libertà e sicurezza nella disciplina delle armi civili e sportive”. Dopo i saluti di rito del vicepresidente esecutivo di Italian exihibition group, Matteo Marzotto, e del presidente di Anpam, Stefano Fiocchi, è stato proiettato un contributo video di Paolo De Nardis, ordinario di sociologia generale dell’Università la Sapienza di Roma. De Nardis, dopo aver confermato che i media fanno un uso fortemente ideologizzato del concetto di “arma” e di “cittadini armati”, ha enumerato alcuni dati estremamente interessanti sulla realtà italiana, evidenziando come nelle regioni con la maggior incidenza di cacciatori in rapporto alla popolazione (Toscana e Liguria su tutte), l’incidenza di omicidi volontari sia inferiore e che la stessa proporzionalità inversa si riscontri tra la regione con più sezioni Tsn (il Veneto, con 23), ma con una incidenza di omicidi di appena 0,24 casi per 100 mila abitanti, e la Calabria, che a fronte di sole 8 sezioni Tsn ha una incidenza di omicidi pari a 2,44 ogni 100 mila abitanti.
Ha preso quindi la parola Alfonso Celotto, ordinario di diritto costituzionale dell’Università degli Studi Roma tre, il quale ha spiegato efficacemente la differenza, ma anche la necessità di coesistenza, tra concetto di sicurezza individuale e collettiva, proponendo interessanti paralleli tra Paesi le cui carte fondamentali riconoscono esplicitamente il diritto di possedere armi: ovvio il riferimento al secondo emendamento della costituzione statunitense, meno scontati e noti i riferimenti alla costituzione di Messico e Guatemala. La chiosa conclusiva è che nel momento in cui la nostra Carta fondamentale non prevede un diritto a possedere armi, sarà ovviamente l’Unione europea a stabilire limiti e confini.
Sempre appassionante l’intervento di Ugo Ruffolo, ordinario di diritto civile dell’Università di Bologna, il quale ha approfondito il problema del risarcimento del danno nel caso in cui non vengano riconosciuti i presupposti per la legittima difesa, sia nel caso in cui a difendersi siano privati cittadini, sia appartenenti alle forze dell’ordine. Il punto di vista, condivisibile e suggestivo, è che non sia giusto che l’ordinamento giuridico italiano (diversamente da quelli di altri Paesi Ue, anche a noi vicini) non preveda una attenuazione del risarcimento nei confronti di un eventuale criminale colpito dal proprietario di casa o dall’appartenente alle forze dell’ordine, nel caso in cui non ricorressero i presupposti della legittima difesa, senza tenere conto dell’elevato stress psicofisico di cui il criminale è stato causa. In altre parole: non è giusto che un ladro che si introduce in una casa e viene ferito dal proprietario, senza che ricorrano i presupposti della legittima difesa, venga risarcito come un soggetto, ipotesi, investito sulle strisce pedonali, perché lo stress che ha determinato il proprietario a sparagli, è stato lui a causarlo. Occorrerebbe, quindi, che si potesse prendere in considerazione, almeno a livello giurisprudenziale, il concetto di concorso di colpa.
Nella successiva tavola rotonda, ha preso nuovamente la parola Celotto: commentando la bozza di direttiva europea attualmente in discussione a Bruxelles, ha osservato come i presupposti di una buona norma siano quelli di garantire un risultato senza creare vincoli impossibili o inutili. Con opportuni esempi, Celotto ha evidenziato come alcune prescrizioni contenute nella direttiva in divenire, certamente non rispettano questo principio. Ha preso quindi la parola Adele Morelli, avvocato nonché consulente legale del Conarmi, che ha sottolineato il paradosso del settore armiero, nel quale molte attività sono regolate da circolari ministeriali che, però, non vengono tenute in alcun conto dai magistrati che si trovano a dover giudicare, perché non considerate in alcun modo fonti del diritto (malgrado si possa ipotizzare, quantomeno, la loro natura di "usi e consuetudini"). Come ha sottolineato correttamente la Morelli, questo costringe le aziende del nostro settore a una persistente incertezza normativa, malgrado le aziende siano le prime a voler assolutamente rispettare i precetti di legge.