Da Gaza alle nostre strade: la rottura di uno pseudo-equilibrio

Sabato 7 ottobre Hamas (con Jihad Islamica e chissà quante altre realtà di quella galassia) ha fatto irruzione in territorio di Israele, facendo breccia nella striscia di Gaza e uccidendo chiunque in modo indiscriminato, oltre che sequestrando un numero imprecisato di persone.

Ha così, di fatto, spezzato definitivamente quello pseudo-equilibrio che da qualche decennio sembrava caratterizzare quella regione. Diciamo “pseudo”, perché gli equilibri imposti con la forza, si sa, con la forza sono destinati a essere spezzati. In ogni caso, da decenni l’area presentava una certa stabilità che questo evento, figlio di lunghi preparativi, ha compromesso irrimediabilmente.

Tra l’altro, abbiamo numerose testimonianze persino scritte di come, in quella regione, gli equilibri siano sempre stati imposti con l’uso indiscriminato della forza. Uso indiscriminato e non solo strumentale, poiché già 1.000 anni prima di Cristo le tribù e i piccoli governatorati locali che la abitavano si strappavano l’un l’altra pezzi di quel territorio e relative risorse attraverso l’uso sistematico dello sterminio di chi le deteneva e del genocidio. Basti leggere con attenzione l’antico testamento (il libro di Giosuè, per esempio) per avere un quadro preciso di come quelle tribù, tra l’altro discendenti dal medesimo ceppo originario, si cancellassero l’un l’altra sistematicamente.

Dalla instabilità di una regione agli equilibri mondiali
A differenza di 3.000 anni fa, però, gli equilibri di quella regione impattano sui più vasti equilibri politici a livello mondiale. Come è possibile?

Che l’equilibrio raggiunto nel secondo dopo-guerra attraverso la suddivisione del mondo in sfere di influenza Usa-Urss sia finito da un pezzo ormai è chiaro, così come è chiara l’inutilità strategica di perdersi in un conflitto, quello ucraino, il cui unico effetto è quello di martoriare povera gente e disperdere per il mondo una quantità di armi inimmaginabile.

Esistono, ormai, diversi poli di influenza economico-politica e tutti quanti hanno perso ogni inibizione nel riportare sul piano anche squisitamente militare le loro dispute. Si è così passati rapidamente da una pura delocalizzazione dei conflitti (conflitti combattuti dai diversi Paesi su territori lontani da loro, spesso per accaparrarsi risorse) a guerre per procura (conflitti che i Paesi fanno formalmente combattere ad altri) fino alla frattura attuale. Certo, vien da chiedersi chi trae beneficio da uno scenario di questo tipo (e qualcuno di certo vi sarà), ma questo è un altro discorso.

Quello che è certo è che in questo scenario si innesta la vicenda in corso ormai da un mese, in cui si affrontano due schieramenti davvero trasversali e nuovi rispetto alle coalizioni cristallizzate in passato: da un lato Israele, uno dei Paesi più ricchi e potenti al mondo, traino economico-finanziario e deus ex machina degli Usa e di tutto il blocco “occidentale”, a sua volta tutto fuor che unito e anzi diviso tra posizioni assolutamente contrarie ad alimentare il conflitto e chi, invece, insegue il sogno di occupare i territori “dal torrente d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate”, oggetto di una promessa fatta millenni or sono e mai mantenuta che, però, serpeggia addirittura sui profili social di numerosi militari israeliani; dall’altro una coalizione di ideali il cui attore del momento è Hamas, ma che punta a coinvolgere idealmente tutta la “nazione araba”, facendo leva presso la sua popolazione su tantissimi fattori, come la rivincita di una civiltà che fu tra le prime della nostra era, il riscatto economico di aree tra le più povere al mondo, il risentimento per decenni di bombe lanciate dall’occidente qua e là e, non ultimo, il fortissimo collante dell’identità religiosa. Pronti, dunque, a ridisegnare nuovamente tutti i confini e a gettare nel cestino le carte geografiche.

A differenza dei conflitti del passato, però, questo è un conflitto che non ha armi convenzionali, perché a fianco alle armi propriamente dette (tra le quali decine di atomiche lato Israele e probabilmente altrettante lato Paesi amici di Hamas) viene combattuto, per esempio, a colpi di attacchi hacker a infrastrutture critiche, a colpi di strategie economico-finanziarie e soprattutto a colpi di comunicazione e informazione manipolate e manipolatorie; non ha territorio né soldati in uniforme perché, al di là dei teatri e dei player formali, si combatte in ogni luogo e con il supporto di ogni persona che si immedesimi in quella che, secondo una formula nota e vincente, viene trasformata da un guerra di conquista a una “causa”. E, si sa, se i vertici delle “catene alimentari” hanno a cuore la conquista, si devono avvalere di masse sulle quali, invece, fa più presa la “causa”. Un conflitto, dunque, pervasivo e diffuso capillarmente come non mai.

La ricaduta del conflitto sulle nostre città
Una volta compreso come ci si trovi nel mezzo di un conflitto che usa ogni strumento, ogni luogo e ogni attore possibile, è facile comprendere anche come questo stesso conflitto avrà un impatto sempre più forte sulla sicurezza quotidiana di ciascuno di noi.

Volutamente si è tralasciato il termine “terrorismo” perché, essendo il terrorismo un mezzo e non un fine, è ormai decisamente più consono parlare di “dimensione asimmetrica di un conflitto”.

Sia come sia, l’insanabile frattura che partendo da Gaza sta creando una spaccatura su tutta la crosta terrestre attiverà senza dubbio tutta una serie di attacchi in tutto il mondo, a partire dalle nostre città.

Vi sarà senza dubbio l’attivazione di più o meno strutturate cellule dormienti, vale a dire di unità combattenti jihadiste già presenti sul territorio occidentale, che pianificheranno e realizzeranno attacchi anche con l’uso di armi da fuoco ed esplosivi, in una forma più “tradizionale” di attacco (shooting e bombing) a cui siamo abituati sin dagli anni Sessanta. Rispetto a questo fenomeno, il numero di armi lasciate in medio oriente e soprattutto il numero inimmaginabile di armi partite alla volta dei confini ucraini e dirottate sul mercato nero in una quantità altrettanto inimmaginabile renderà la vita senz’altro più facile agli attentatori e decisamente più devastante la portata offensiva di ogni attacco.

Vi sarà, poi, l’azione di un numero non stimabile di soggetti che agiranno “ispirati a” quanto sta accadendo laggiù, nelle forme che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi decenni e tanto care a Daesh e a i più recenti player del jihad. Ecco che chiunque può creare terrore anche semplicemente brandendo un coltello, un piccone o qualsiasi altro strumento e colpendo in modo del tutto inaspettato la popolazione civile, magari in luoghi ad alta frequentazione (stabbing).

Come abbiamo avuto più volte occasione di ripetere, un coltello è uno strumento facilissimo da reperire, a costo praticamente zero, semplice da trasportare e occultare, in grado di infliggere morte anche nelle mani di chi non sia stato specificamente addestrato a farlo ed estremamente difficile da contrastare. Proprio Daesh ormai da molti anni divulga sue pubblicazioni che, con una forma comunicativa estremamente efficace e con edizioni in numerose lingue per raggiungere chiunque nel mondo, incita all’attacco anche con strumenti quali coltelli e veicoli (vehicle ramming) e divulga precise linee-guida su come farlo.

L’uso attento della comunicazione del web, poi, fa il resto: una singola azione, meglio se cruenta e sanguinosa, può gettare davvero terrore in milioni di persone se diffusa in tutto il mondo via web con un semplice click.

Chi
È così che verranno coinvolti soggetti dai profili più diversi: dal fervente jihadista a chi cerca riscatto economico e sociale, come immigrati di seconda e terza generazione che non hanno mai trovato davvero casa, lavoro, soddisfazione, fino a chi crede davvero nell’alone di religiosità di cui si pretende di ricoprire un ruolo nel conflitto che, come si diceva, da che mondo è mondo ha il solo senso di accaparrarsi risorse e che ora tiene più faticosamente a freno le sue inibizioni e la sua voglia di sfogare rabbia e odio, grazie all’iniezione di fiducia e coraggio che la frattura di Gaza e la successiva coalizione del mondo arabo-islamico sta infondendo.

Non ultimo, una politica migratoria scellerata e suicida ha contribuito (e contribuisce ogni giorno) a far accedere su suolo occidentale una quantità indicibile di persone che non vengono assoggettate ad alcun controllo, contribuendo a quell’opera di popolamento dei territori occidentali da parte di persone provenienti da vicino, medio e lontano oriente ed Africa.

Ciò che è certo è che, come sempre, i veri decisori hanno precisi obiettivi e precise finalità di conquista, mentre chi svolge il ruolo di pedina sul campo viene coinvolto facendo leva su finalità assolutamente concrete legate alla sopravvivenza, come ipotesi di migliori condizioni di vita, oppure ideali, come una qualche forma di finalità religiosa, o semplicemente concedendo loro l’opportunità di sfogare rabbia e odio.

Arriva nel momento in cui scriviamo la notizia dell’arresto avvenuto a Genova di un cittadino del Bangladesh che aveva tutte le intenzioni di immolarsi per la causa di Al-Qaida.

Dove
Le città sono luoghi ideali per questo genere di attacchi, perché densamente popolate e piene di luoghi ad alta frequentazione che, non a caso, sono stati sino a oggi teatri perfetti per gli attacchi terroristici che abbiamo imparato a conoscere.

Se teniamo a mente le vere finalità, che si riassumono nella volontà di conquistare territori e soppiantare il metodo di governo locale con il proprio, ecco che diffondere il terrore di frequentare luoghi pubblici aiuta a minare la credibilità di forme di governo che, in quel modo, perdono sempre più di credibilità agli occhi dei propri cittadini, che non si sentono adeguatamente protetti.

Noi cittadini, invece, cosa possiamo fare? Senz’altro non dobbiamo smettere di aggregarci e frequentarci, altrimenti avremmo già perso.

Altrettanto certamente, però, non dobbiamo ignorare le minacce vecchie e nuove. Se mai l’abbiamo avuta, è arrivato il momento di abbandonare quella sensazione di vivere nel mondo delle fiabe, che non è mai esistito, e riprendere quel pizzico di sana diffidenza nei confronti dell’ambiente che ci ha garantito la sopravvivenza come specie sino ai giorni nostri.

Non dobbiamo dimenticarci di mantenere sempre una certa soglia di attenzione e vigilanza nei confronti di ciò che accade intorno a noi, unica via per poter provare a recepire con un minimo anticipo eventuali segnali premonitori di un attacco.

Dobbiamo porci in anticipo la domanda su come ci comporteremmo se ci trovassimo coinvolti in un evento del genere e pianificare i comportamenti che riteniamo più adeguati. Corsi di formazione, simulazioni di gestione dell’emergenza e tanti altri strumenti simili possono aiutare a comprendere il contesto e a consigliare i giusti comportamenti. Certo, giunti a questo punto della storia, sarebbe ora che i governi parlassero apertamente alla cittadinanza e offrissero per primi gli strumenti di prevenzione e gestione più adeguati mentre, trincerati dietro il motivo di non diffondere panico, sembra che lascino i cittadini senza informazioni e senza preparazione rispetto a questi eventi.

Infine, tornare ad autodeterminarci e smetterla di subire passivamente le politiche di espansione altrui, dai potenti di oriente a quelli di occidente, aiuterebbe non poco.