L’Italia sarebbe di nuovo crocevia del traffico internazionale di armi. Un ritorno agli anni Ottanta agevolato dalla sua posizione geografica e dalla presenza diffusa sul territorio della criminalità, anche organizzata, che favorisce l’attività di gruppi dediti alla compravendita di armamenti. È quanto emerge da un’inchiesta della procura di Perugia diretta dal sostituto procuratore Carlo Razzi. Un’indagine che ha portato all’arresto, all’inizio del 2007, di cinque pe…
L’Italia sarebbe di nuovo crocevia del traffico internazionale di armi. Un
ritorno agli anni Ottanta agevolato dalla sua posizione geografica e dalla
presenza diffusa sul territorio della criminalità, anche organizzata, che
favorisce l’attività di gruppi dediti alla compravendita di armamenti. È quanto
emerge da un’inchiesta della procura di Perugia diretta dal sostituto
procuratore Carlo Razzi. Un’indagine che ha portato all’arresto, all’inizio del
2007, di cinque persone, per le quali è stato ora chiesto il rinvio a giudizio,
e alla scoperta di un colossale traffico di armi che, se non fosse stato
bloccato dagli inquirenti, avrebbe visto lo smercio di 500 mila fucili
d’assalto e più di 10 milioni di munizioni prodotti in Cina e destinati alla
Libia. Per un valore finale di 65 milioni di dollari. Secondo gli accertamenti
sinora svolti le armi sarebbero servite ad alimentare i conflitti africani, ma
non sarebbero le uniche smerciate dal gruppo di indagati che avrebbe, al
contrario, cercato diverse commesse in altre parti del mondo: in Lituania,
Russia, Repubblica ceca, Congo, Israele, Turchia, Cina, Francia e Sri Lanka. In
quanto ai tentativi di occultamento dei proventi e delle tangenti legate agli
affari che il gruppo stava mettendo in piedi sarebbero stati scoperti bonifici
provenienti da banche maltesi e indirizzati su conti accesi presso istituti di
credito italiani da prestanome libici (Banca popolare di Vicenza) o su conti di
famigliari degli stessi soggetti posti sotto inchiesta (Banca Carige, Intesa).
Mentre sono stati analizzati anche i pagamenti versati ai fornitori cinesi che
sarebbero in parte transitati dalla Banca di Roma prima di essere saldati con
un bonifico effettuato direttamente verso la Cina. Dai dati raccolti
risulterebbe, insomma, che i contatti libici si avvalevano, per diversi
pagamenti di tangenti, di banche italiane allo stesso modo in cui venivano
utilizzati conti svizzeri dalle società controllate dagli stessi indagati. E se
la Svizzera ha già accolto la richiesta di rogatoria e disposto autonomamente
il blocco dei conti sospetti, in Italia la situazione è più critica: a causa di
alcuni buchi legislativi c’è infatti la possibilità che gli indagati trovino
una scappatoia. Una situazione che si è già manifestata, in modo simile, nel
caso di Leonid Minin, arrestato nel 2000 con una serie di prove schiaccianti
circa il suo coinvolgimento nel traffico di armi verso Paesi africani posti
sotto embargo, ma rilasciato nel 2002 a seguito di una sentenza della Corte di
Cassazione che annullava l’ordinanza di custodia cautelare. Il motivo? Un
difetto di giurisdizione generato dal fatto che la perseguibilità delle
condotte in oggetto è regolata dalla legge 497/74, la quale mira a reprimere la
circolazione illegale di armi in Italia, ma non contempla il commercio di
armamenti da guerra tra Stati esteri mediante triangolazione.