La corte costituzionale, con sentenza n. 126 del 24 maggio 2022, ha dichiarato l’incostituzionalità della legge della regione Lombardia n. 8 del 25 maggio 2021 nella parte in cui consentiva di integrare l’armamento delle polizie locali anche con gli storditori elettrici, seppur del tipo “a contatto” e non tipo Taser (quest’ultimo, con proiezione di dardi). Una sentenza della corte di Cassazione del 2019 aveva, in effetti, evidenziato una bipartizione nella disciplina giuridica riguardante gli storditori elettrici, qualificando come armi da sparo quelli tipo Taser, cioè con proiezione di dardi, mentre gli storditori a contatto erano stati ritenuti rientranti tra gli strumenti atti a offendere.
Aveva proposto ricorso il presidente del consiglio dei ministri attraverso l’avvocatura generale dello Stato, per violazione dell’articolo 117 della costituzione che stabilisce, in particolare, la potestà esclusiva dello stato nelle materie afferenti le armi.
La corte costituzionale ha considerato ammissibile il ricorso e dato ragione al ricorrente, determinando inoltre che anche gli storditori elettrici a contatto debbano rientrare nella definizione di armi e che, conseguentemente, la loro inclusione nelle possibili dotazioni della polizia locale debba essere disposta con legge dello Stato: legge che, attualmente, prevede solo la possibilità da parte dei comuni di deliberare la dotazione di pistole semiautomatiche o revolver.
La corte costituzionale ha infatti osservato che “l’espressione “a contatto”, utilizzata dal legislatore regionale per precisare le modalità di funzionamento dei “dissuasori di stordimento”, rende evidente che la disposizione medesima riguarda quei dispositivi dotati di carica elettrica che, nel linguaggio comune, sono conosciuti come “stungun”. Si tratta di quei dispositivi, sicuramente in grado di offendere l’incolumità delle persone, che funzionano mediante il rilascio di una scarica elettrica di stordimento nel momento in cui vengono a toccare fisicamente il corpo dell’offeso. La normativa statale non utilizza il termine “dissuasori”, tantomeno “a contatto”, ma impiega l’espressione omnicomprensiva di “armi comuni ad impulsi elettrici” (laddove prevede la sperimentazione, sia presso la Polizia di Stato, sia presso i corpi di polizia locale), ovvero di “storditori elettrici”, affiancati però dalla locuzione, più generale, di “altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione” (laddove è stata aggiornata la fattispecie di divieto di porto d’armi).
Appare evidente che simili espressioni mirano a ricomprendere nella nozione di arma comune tutti i dispositivi ad impulso elettrico che siano in grado di determinare un effetto di stordimento nella persona contro la quale sono diretti, che funzionino o meno a contatto con la medesima. Particolarmente significativa, nel quadro evolutivo appena tracciato, è la sostituzione – nell’ambito della disciplina sulla sperimentazione di tali dispositivi presso la Polizia di Stato, di cui all’art. 19, comma 5, del d.l. n. 113 del 2018, come convertito – del previgente riferimento alla “pistola elettrica Taser” con l’attuale locuzione, certamente più estesa, di “arma comune ad impulsi elettrici” (tale, dunque, da abbracciare, oltre al “Taser”, anche il diverso dispositivo conosciuto come “stungun”).
Al tempo stesso, pur avendo qualificato questi dispositivi come «armi», il legislatore statale non ha ancora ritenuto di includerli, in modo definitivo, nella dotazione di armamento delle forze di polizia, salvo solo prevedere appositi percorsi di sperimentazione. Per quanto concerne il servizio di polizia municipale, in particolare, la vigente legge quadro statale ha stabilito che gli addetti a tale servizio, in possesso della qualità di agente di pubblica sicurezza, possono portare le armi senza licenza (previa deliberazione in tal senso del Consiglio comunale) e ha rimesso a un regolamento approvato dal Ministro dell’interno, sentita l’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia, il compito di stabilire la tipologia e il numero delle armi in dotazione (art. 5, comma 5, della legge 7 marzo 1986, n. 65, recante “Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale”). Tale regolamento, adottato con decreto del Ministro dell’interno 4 marzo 1987, n. 145 (Norme concernenti l’armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza), ha quindi stabilito, oltre al numero, anche la tipologia delle armi in dotazione, precisando che esse sono unicamente “la pistola semi-automatica o la pistola a rotazione i cui modelli devono essere scelti fra quelli iscritti nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo di cui all’art. 7 della legge 18 aprile 1975, n. 110, e successive modificazioni” (art. 4, comma 1) e rimandando, quanto alla scelta del tipo e del calibro delle armi così individuate, ai singoli regolamenti comunali.
Da quanto precede emerge che il legislatore statale, nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di armi, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera d), Cost., ha finora escluso – salva la sperimentazione, con le cautele di volta in volta indicate – che gli agenti di polizia (sia locale, sia di Stato) possano portare, tra le armi di servizio, anche i dispositivi ad impulso elettrico, pur avendo dimostrato di considerare questi ultimi, a tutti gli effetti, come “armi comuni”.
La Regione Lombardia, stabilendo che le forze di polizia locale possono dotarsi di tali dispositivi (sia pure limitatamente a quelli funzionanti “a contatto”), per un verso ha superato gli attuali limiti e condizioni che il legislatore statale ha individuato per la sperimentazione degli stessi (avendo previsto solo genericamente lo svolgimento di una “previa formazione”); per altro verso, e più in radice, ha ampliato il novero delle “armi” in dotazione ai corpi di polizia municipale al di là delle previsioni di cui all’art. 5, comma 5, della legge n. 65 del 1986. Così facendo, essa ha violato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di armi, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera d), Cost. Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, limitatamente alle parole “dissuasori di stordimento a contatto””.