Il porto di pistola per difesa personale è ormai sempre più una autorizzazione di polizia “teorica”, più che concreta. I dati parlano chiaro: nel 2002 le licenze in corso di validità (escluse le guardie giurate) erano oltre 45 mila, nel 2021 (dato più aggiornato disponibile) erano scese a 12.346, quindi meno di un terzo. A farne le spese sono state decine di migliaia di cittadini ai quali, in molti casi, il porto d’armi in questione era stato rinnovato per decenni. Le motivazioni addotte dalle prefetture e “confortate”, spesso dalle sentenze dei Tar sono relative a valutazioni più stringenti in merito a “mutati indirizzi di gestione degli interessi generali di settore” (leggasi: il ministero dell’Interno ha deciso di dare un giro di vite). “Indirizzi” che, in concreto, si estrinsecano in una serie di motivazioni pratiche che, spesso, fanno letteralmente a cazzotti con il mondo reale. Una delle motivazioni maggiormente ricorrenti, per esempio, relativamente al mancato rinnovo del porto d’armi in capo a chi giustificava il proprio “dimostrato bisogno” con la movimentazione di importanti somme di contanti è che “oggi come oggi esistono anche i pagamenti elettronici”. Peccato però che la scelta tra pagare in contanti, con Bancomat o carta di credito non competa a chi riceve il pagamento, bensì a chi lo fa. E che chi riceve il pagamento non possa rifiutarsi di accettare un pagamento in contanti.
Anche in questo caso, comunque, la risposta da parte degli illuminati funzionari è presto pronta: maneggi contanti? Ti ritrovi con forti somme di denaro in banconote? Non c’è problema, la pistola non ti serve: devi munirti di una guardia giurata! Sembra incredibile ma abbiamo letto proprio di recente considerazioni di questo tenore nel diniego di una prefettura. Capito? Il titolare di un negozio (esempio) per evitare di farsi rapinare dovrebbe mettere se stesso sotto la scorta di un istituto di vigilanza, ogni volta che a sera esce con l’incasso e deve portarlo a casa o in banca. E chi dovrebbe pagarlo l’istituto di vigilanza, di grazia? Ma qualcuno si è posto il problema di cosa comporterebbe una cosa del genere da un punto di vista meramente logistico? E quindi di quale sarebbe il costo? Con l’amara ironia, per il cittadino, di dover “affittare” un cittadino armato (dalla stessa prefettura!) perché a lui la pistola non gliela danno! Ma d’altronde chi “maneggia contante”, evidentemente, solo per questo motivo è “ricco”. Peccato che esista una bella differenza tra il ricavo e il guadagno, soprattutto per alcune categorie professionali, come quella dei benzinai, per esempio. Qualcuno, il problema, se lo è posto?
Un’altra delle considerazioni ormai prese a paradigma con effetto “copia-incolla” tra le motivazioni di diniego delle questure e di respingimento dei ricorsi da parte dei Tar è che “non è sufficiente la mera appartenenza a una categoria professionale”, in quanto (secondo quanto evidentemente ritengono i funzionari degli uffici armi delle prefetture e i giudici amministrativi) non esiste un lavoro “più a rischio di un altro”.
A dire la verità, proprio la drammatica rapina che si è verificata pochi giorni or sono in una gioielleria della città di Napoli sembrerebbe dimostrare il contrario: rapina nel corso della quale la titolare, con la figlia piccola in braccio, ha dovuto fronteggiare quattro malviventi armati di pistole e a volto coperto, che sono penetrati all’interno del negozio praticando una voragine nel pavimento, per poi malmenare la negoziante.
La domanda che ci piacerebbe fare ai suddetti funzionari delle questure e ai suddetti giudici è la seguente: vi pare che un assalto in stile militare di questo tipo, sia mai stato tentato nei confronti di una panetteria? O di una edicola? Non sarà, forse, che la presenza di ingenti valori (in termini di gioielli o di contanti o entrambe le cose) giustifichi, da parte della criminalità, il dispiegamento di risorse tecniche, sforzi e “cattiveria” di particolare entità? Non sappiamo, ovviamente, se la negoziante in questione avesse mai fatto domanda di porto d’armi e, altrettanto evidentemente, il punto non è questo.
Il punto è che si ha decisamente l’impressione che l’autorità di pubblica sicurezza e i giudici del Tar abbiano preso la pessima abitudine di fare “scommesse” sulla pelle di quei cittadini, cercando a tutti i costi arzigogolate e astruse motivazioni (spesso oltre il limite del ridicolo e della decenza) per giustificare un obiettivo che non ha niente a che vedere con la contingenza del singolo e specifico caso ma, piuttosto, obbedisce a “obiettivi di risultato” di tipo politico, che giungono direttamente da Roma.
Il risultato è che, sulla base di requisiti di “dimostrato bisogno” che apparivano pacifici fino a pochi anni or sono, oggi i cittadini vengono disarmati e devono continuare a fare i lavori che facevano prima, disarmati.
Tornando all’esempio della gioielliera di Napoli: a lei, nonostante tutto, è andata bene, è ancora viva e potrà tornare al proprio lavoro. È possibile che, se chiedesse il porto d’armi, a questo punto la prefettura possa riconoscere il “dimostrato bisogno”, visto che c’è stato un precedente di rapina recente. Ma magari, anche no. E nel caso in cui il cittadino si veda rifiutare un porto d’armi, la rapina si verifichi, e il cittadino venga ucciso o menomato, a questo punto chi pagherà? L’illustrissimo prefetto? O come al solito non si andrà oltre le frasi di circostanza?