Un caso di legittima difesa, stando a quanto emerso dalla sentenza di primo grado. Un caso ancora tutto da chiarire, stando alla procura, che ha presentato ricorso in appello sia per la ricostruzione della vicenda in sé, che appare poco chiara, sia per le modalità vere e proprie dell’azione di autodifesa, giudicate “eccessive” con motivazioni che lasciano a dir poco sconcertati.
Nonostante già sia stata emessa una sentenza di primo grado di assoluzione, non si è quindi conclusa la vicenda giudiziaria di Silvia Rossetto, la donna che in provincia di Torino ha ucciso il compagno Giuseppe Marcon con un fendente al cuore, dopo che lui a sua volta le aveva puntato un coltello alla gola durante l’ennesima lite.
La Rossetto, sofferente di problemi psichiatrici, era già stata più volte aggredita dalla vittima con pugni e calci: il 2 settembre 2018 si è consumata l’ennesima lite e quando lei si è sentita in pericolo ha chiamato al telefono la madre, che a sua volta ha avvertito i carabinieri. Questi ultimi, sopraggiunti sul posto, hanno constatato il decesso dell’uomo.
La procura aveva chiesto in primo grado una pena di 9 anni, ma la sentenza ha invece riconosciuto la scriminante della legittima difesa e, di conseguenza, ha assolto la donna. Contro la sentenza il Pm ha presentato ricorso in appello, evidenziando una dinamica dei fatti ancora da chiarire nei dettagli (anche perché il racconto è stato ritenuto a tratti confuso ed errato), ma soprattutto evidenziando che la Rossetto sarebbe “andata ben oltre una possibile difesa. L’unico colpo che ha sferrato è stato solo rivolto alla parte più delicata del corpo: al cuore, ma con una forza non comune sufficiente a penetrare tra le costole che non sarebbe stata necessaria laddove il colpo fosse stato diretto verso altre parti”. La procura osserva che “Un fendente di quella forza al cuore, uccide. Questo giudizio avrebbe potuto essere formulato anche da un adolescente o da un bambino. È un dato notorio che prescinde dal livello di alfabetizzazione di una persona o dalla sua condizione psicologica”.
Motivazioni sconcertanti
Ovviamente non possiamo permetterci di entrare nel merito della ricostruzione processuale della vicenda, che nel momento in cui dovesse presentare aspetti da chiarire, sarà giustamente in un’aula di tribunale che dovrà essere definitivamente portata alla luce. Ciò su cui ci soffermiamo sono le parole con le quali la procura entra nello specifico dell’azione difensiva, cioè di quel fatidico fendente al cuore vibrato dalla donna, in una situazione nella quale evidentemente temeva per la propria vita e, altrettanto evidentemente, si trovava in uno stato di forte alterazione emotiva. Ciò che lascia allibiti e preoccupa non poco, è l’atteggiamento di fondo della procura, secondo la quale anche in un simile frangente, nel quale al soggetto minacciato restano frazioni di secondo per reagire, in modo primordiale, alla minaccia concreta al proprio istinto naturale di conservazione, debba restare comunque la freddezza, la lucidità, di calcolare la forza e il punto nel quale eventualmente vibrare il colpo per far cessare la minaccia all’incolumità personale che è in evidente atto. Valutazioni che vengono svolte nella quiete di un ufficio, lontani dalla vicenda, in un contesto protetto e tutelato (il tribunale), completamente avulso dalla drammaticità del momento. Hai colpito al cuore? Male, avresti dovuto colpire alle braccia o alle gambe. Colpisci alle gambe e recidi l’arteria femorale? Male, avresti dovuto avere cognizione precisa dell’anatomia umana e orientare diversamente la lama. Hai fatto bianco? Avresti dovuto fare nero. Hai fatto nero? Avresti dovuto fare bianco. E così via.
La donna è senz’altro colpevole d’omicidio, perché ha colpito e il colpo è risultato mortale. Non sappiamo se la sua ricostruzione dei fatti sarà ritenuta veritiera fino alla conclusione dell’iter processuale e se, quindi, sia meritevole di rientrare nella scriminante della legittima difesa oppure no. Esclusivamente per quanto riguarda le osservazioni sull’azione difensiva in sé, non possiamo, tuttavia, fare a meno di ricordare ai magistrati quanto già i latini, nella loro saggezza, avevano chiarito con un brocardo rimasto leggendario ma, evidentemente, sul quale nei nostri tempi è calato l’oblio: “adgreditus non habet staderam in manu”, cioè “colui che è aggredito non ha in mano il bilancino”, per pesare con precisione la propria reazione.
In tempi nei quali il protagonista drammatico delle cronache, con cadenza ormai quotidiana, è il femminicidio, le motivazioni per questo appello suonano come uno schiaffo in faccia, l’ennesimo, al concetto di legittima difesa in sé e per sé, in particolare per il soggetto tradizionalmente più debole, ovvero la donna.