Con sentenza n. 176 del 20 febbraio 2023, il Tar del Piemonte (sezione prima) ha accolto il ricorso di un cittadino che si era visto notificare il divieto di detenzione delle armi ex art. 39 Tulps, perché in occasione di un controllo da parte dei locali carabinieri uno dei fucili di sua proprietà non era stato rinvenuto nell’armadio blindato insieme agli altri, bensì in una stanza al piano inferiore. I carabinieri avevano qualificato quella stanza come “salotto” e avevano eccepito che la stanza fosse frequentata anche da altri conviventi, laddove invece il proprietario dell’arma aveva evidenziato (e poi dimostrato) che la stanza era un magazzino del quale egli solo aveva la chiave e al quale, conseguentemente, solo lui poteva avere accesso. Rispetto, tra l’altro, al processo penale per il reato di omessa custodia dell’arma, era intervenuta assoluzione da parte del tribunale.
Il Tar ha quindi accolto il ricorso, argomentando che “Dalla motivazione della sentenza emerge in via del tutto palese che l’interessato fosse l’unico possessore della chiave di accesso alla stanza ove gli agenti avevano rinvenuto la carabina e le cartucce; che due carabinieri che avevano effettuato la perquisizione erano stati guidati dallo stesso -ricorrente- nella verifica delle armi custodite in cassaforte ed era stato sempre quest’ultimo a condurli nella stanza ove era stata temporaneamente riposta la carabina da pulire. Era evidente che non sussistevano i requisiti previsti dalla legge per integrare il reato di cui al capo 2) d’imputazione in quanto l’art. 20 bis della l. 110 del 1975 che punisce chiunque trascura di operare nella custodia delle armi le cautele necessarie ad impedire che determinate categorie di soggetti (minori, soggetti incapaci, tossicodipendenti) possano impossessarsene agevolmente, così limitando il legislatore la condotta penalmente rilevante alla sussistenza di presupposti ben definiti: era pacifico che nel caso nell’appartamento perquisito non dimorassero soggetti rientranti nelle predette categorie “a rischio” né erano emerse circostanze specifiche in virtù delle quali “l’agente possa e debba rappresentarsi l’esistenza di una situazione tale da richiedere l’adozione di cautele specifiche e necessarie per impedire l’impossessamento delle armi da parte di uno dei soggetti indicati” (cfr. Cass. Pen., V, 30 ottobre 2007 n. 45964), elemento questo necessario ad integrare il pericolo concreto richiesto dalla fattispecie incriminatrice. Da tutto ciò non poteva che derivare la sentenza di assoluzione, perché il fatto contestato non sussisteva ed inoltre non poteva essere dimenticato che l’art. 26 della l. 110 del 1975 obbliga alla denuncia di munizioni, nel caso di armi di questo tipo, ove le cartucce a pallini siano superiori al numero di 1000, mentre nel caso ne erano state rinvenute solamente quattordici”. Il ministero dell’Interno è stato condannato al pagamento delle spese di giudizio.