Il 29 luglio 2024, in una scuola di danza di Southport, nei pressi di Liverpool, nel Regno Unito, tale Axel Rudakubana, un cittadino britannico di 17 anni nato a Cardiff da genitori ruandesi, ha fatto irruzione armato di coltello presso una scuola di danza mentre era in corso un workshop in cui erano impegnati 25 bambini, sui quali l’assalitore si è scagliato furiosamente.
Il drammatico bilancio è stato di 3 bambini uccisi (6, 7 e 9 anni) e altre 10 persone ferite (8 delle quali bambine), di cui alcune in modo molto grave, tra cui due adulti intervenuti per cercare di salvare le bimbe dalla furia dell’assalitore.
Nella centralissima Leicester Square, a Londra la mattina di lunedì 12 agosto un uomo di 32 anni ha colpito senza alcun preavviso una madre con la figlia, usando un coltello di piccole dimensioni proprio di fronte a uno dei negozi in una delle più affollate e turistiche piazze della città.
L’intervento della guardia giurata e dei commessi presenti all’evento ha consentito di fermare, disarmare e trattenere l’aggressore fino all’arrivo della polizia, che lo ha arrestato.
La Metropolitan police ha dichiarato non c’è alcuna ipotesi che l’incidente sia legato al terrorismo, ma solo di una persona che è parsa disorientata al momento dell’arresto e probabilmente mentalmente disturbata.
La sera del 23 agosto a Solingen in Germania, durante il “Festival della diversità” un siriano di 26 anni arrivato in Germania nel 2020 e richiedente asilo politico, all’urlo di “Allahu Akbar” ha attaccato con un coltello in maniera del tutto casuale (random) i presenti alla festa che era in corso per celebrare il 650esimo anniversario della città, causando un bilancio di 3 morti e 8 feriti, per poi darsi alla fuga.
L’assalitore si è poi consegnato alla polizia e Isis ha rivendicato l’attacco. L’uomo, tra l’altro, avrebbe dovuto essere espulso, ma di lui si erano perse le tracce, anche se le autorità al momento negano che il nome del siriano fosse incluso nel numero (a 3 cifre…) dei nominativi ritenuti pericolosi nella scena islamista. La polizia ha fermato anche un 15enne che pare aver parlato con l’assalitore poco prima dell’attacco e un altro siriano di 36 anni collocato presso un centro per richiedenti asilo.
La notte dell’8 maggio un uomo di 37 anni di origini marocchine ha lanciato pietre contro i treni e le persone mentre si trovava vicino ai binari nella stazione ferroviaria di Milano Lambrate, colpendo in testa una donna.
La pattuglia delle Volanti intervenuta lo ha trovato in stato di forte agitazione. Dopo aver provato con Taser, che si è rivelato inefficace a causa dello spesso giubbotto indossato, è nata una colluttazione, in esito alla quale un operatore ha rimediato 3 coltellate alla schiena, scampando alla morte davvero per poco.
Terrorismo sì, terrorismo no: chi sono gli assalitori?
Per il mass killing di Southport il giovane assalitore era arrivato nella via dove si è compiuto l’attacco in taxi, dal quale era sceso senza pagare per fare ingresso nel locale che ospitava il workshop, per poi essere rintracciato e arrestato pochi minuti dopo l’attacco, che non è stato trattato come atto di terrorismo, ma come un crimine “correlato al terrorismo”. L’evento, tra l’altro, riporta subito alla mente l’attacco portato da Abdalmasih H, siriano di 31 anni, rifugiato da anni in Svezia, che nel giugno del 2023 aveva attaccato con un grosso coltello tutti i bambini che ha potuto all’interno di un parco giochi ad Annecy, in Francia.
Nell’evento di Londra, invece, l’assalitore ha preferito accanirsi contro una sola, indifesa, vittima, anche in questo caso una bimba.
Nel caso di Solingen, poi, l’assalitore ha preferito un grande assembramento umano, che avrebbe offerto un maggior numero di vittime.
Nel caso di Lambrate, infine, la vittima della lama è stato un operatore di polizia.
I target prescelti hanno un valore simbolico:
- Southport, come a suo tempo Annecy, elegge i bambini quali vittime sacrificali preferite, rievocando usanze antiche delle regioni medio-orientali (terra che ha generato tanto Ebraismo e Cristianesimo quanto l’Islam), oltre a rendere decisamente ancor più odioso e raccapricciante il gesto agli occhi del mondo;
- Solingen interpreta il più classico dei mass killing, per il quale l’assalitore ricerca una grande concentrazione di persone, tra l’altro, distratte e disarmate da un momento di festa. Anche il fatto che i festeggiamenti fossero dedicati ai 650 anni della cittadina potrebbe conferire un sapore ancora più speciale all’attacco che è stato rivolto, in termini simbolici, contro le radici storico-culturali della città e, in definitiva, del suo popolo;
- a Lambrate, invece, il poliziotto verosimilmente è stato vittima solo della reazione incontrollata di uno sbandato che, però, aveva con sé un coltello di grandi dimensioni e non ha esitato un attimo a colpire chi, per mestiere, si occupa di proteggere gli altri. In molti altri casi, gli attacchi sono avvenuti volontariamente contro le forze di sicurezza, proprio per il forte simbolismo contenuto nel colpire chi, invece, dovrebbe proteggere gli altri. Inoltre, colpire l’uomo in uniforme significa colpire direttamente e frontalmente lo Stato e ciò che rappresenta in termini di ordine e sicurezza pubblica. Non a caso, la nostra Academy ormai da anni propone seminari tematici approfonditi e dedicati a questo tema in occasione di fiere e convegni.
Insomma, cosa è terrorismo e cosa no? Per esempio, l’evento di Southport è stato definito un crimine “correlato al terrorismo”. Cosa significa? Nulla, se si ha chiara la portata del termine “terrorismo”.
Di certo non è l’urlo “Allahu Akbar” al momento dell’attacco a determinare o meno una matrice jihadista.
Nella sterminata galassia del jihad esistono infatti un numero sterminato di tipologie umane, figlie di diversi livelli e modalità di coinvolgimento. Per quanto riguarda le presenze in Europa, esiste:
- chi appartiene professionalmente a organizzazioni terroristiche e attende di essere attivato. In questi casi agire con il coltello garantisce di non doversi approvvigionare di armi, esplosivi, ecc. e in definitiva di non dover gestire comunicazioni con alcun referente, tutelandolo al massimo dalle maglie investigative;
- chi simpatizza per la causa jihadista, spesso auto-radicalizzandosi o semplicemente rientrando nella sfera di influenza di qualche divulgatore autonomo. In questo caso, il soggetto potrà decidere di agire in completa autonomia, con una modalità o un’altra, semplicemente dando il suo contributo spontaneo alla causa jihadista;
- chi, infine, spesso sostenuto da un profilo di portata psichiatrica, un bel giorno decide di colpire i suoi simili, nel solo intento di fare del male e in qualche modo scardinare gli equilibri sociali. In questi casi le organizzazioni spesso rivendicano cose di cui non erano nemmeno a conoscenza e sempre ringraziano dell’acqua portata al loro mulino.
Ecco, di questo si sostanzia il terrorismo. Di ogni sforzo teso a cambiare, tramite lo strumento del terrore, le abitudini di vita di una comunità o addirittura di una società, in definitiva volendone minare le modalità di gestione e governo.
Così stando le cose appare chiaro come vi siano gesti compiuti magari con scarsa consapevolezza ma che contribuiscono non poco ad alimentare la causa jihadista.
Quanto al profilo psicologico di chi agisce, molto spesso capita di leggere di come venga esclusa la pista terroristica poiché l’assalitore sembra soggetto psichicamente instabile: ma le due cose sono in conflitto? Oppure, in modo molto più credibile, la causa jihadista si avvantaggia anche di soggetti poco e mal orientati nel mondo, come tali molto più facili da manipolare?
Jihad, lame e comunicazione
A prescindere da eventuali riscontri investigativi, che naturalmente non ci competono, la scelta dei target e le modalità di azione di questi come di altri eventi, rispecchia letteralmente le linee-guida che Isis diffuse ormai anni fa via web:
- il coltello fa scempio dei nostri corpi, provoca la fuoriuscita copiosa di sangue e, in definitiva, crea uno scenario raccapricciante, che impressiona qualsiasi persona dotata di buon senso;
- il coltello non ha bisogno di formazione specifica per essere letale, basterà solo tanta determinazione. In questo senso consigliava espressamente di non soffermarsi a ogni costo su uccisioni rituali, come il distacco del capo, ma di mietere semplicemente quante più vittime possibile. In questo senso grandi assembramenti rappresentano un ottimo target;
- nella scelta del target, vi sono casi però in cui è preferibile scegliere vittime isolate o indifese, anche per escludere l’intervento di altri cittadini che depotenzierebbe la portata offensiva dell’attacco. Così facendo vi sarebbero, inoltre, più possibilità di fuga in vista di quella che venne definita una “campagna di lungo periodo”.
Non più attacchi suicidi
Ma come, l’attentatore jihadista non nasceva come attentatore suicida? Non vi erano forse tutta una ritualità e una simbologia legate proprio al fatto di immolarsi per la causa durante il gesto? Non si trattava, in definitiva, di terrorismo definibile come “religioso” o “confessionale”?
Ebbene, dobbiamo ricordare che il terrorismo è un mezzo, non un fine. E il fine, qui, sembra sempre più apertamente politico-economico-sociale.
La retorica del martire, almeno in questo genere di attacchi, ha lasciato il posto a una strategia che induce a cercare la fuga, garanzia di libertà e di ulteriore possibilità di colpire ancora, sempre secondo precise linee-guida divulgate dallo stesso Daesh ormai anni or sono.
Per carità, vi saranno livelli di coinvolgimento nelle organizzazioni terroristiche che porteranno a spingersi fino all’estremo sacrificio, tra l’altro obiettivo strategico per le organizzazioni che vedono limitata la possibilità di risalire a fiancheggiatori e mandanti, soprattutto in occasione di attacchi molto più letali e strutturati, come quelli che vedono l’impiego di armi da fuoco automatiche ed esplosivi, che sottintendono un legame fisico e concreto con qualcuno.
Ma questi attacchi “improvvisati” seguono regole e dinamiche diverse e, per certi versi, molto più preoccupanti.
Siamo tutti a rischio
Il messaggio di base e l’obiettivo fondamentale è la diffusione della paura. In effetti, il pensiero di essere vulnerabili in qualsiasi momento e luogo della nostra quotidianità diffonde non poca paura. Colpire una celebrazione delle radici di città e cittadinanza è ancora più significativo. Colpire le forze di sicurezza, poi, ha la portata simbolica di colpire addirittura il “difensore”.
La paura, poi, aumenta e può diventare più facilmente panico se le vittime dell’attacco sono indifese, come i bambini, e se l’azione crea uno scenario raccapricciante, come solo la lama può fare. Il panico favorisce la recriminazione nei confronti un sistema sociale e di governo che viene percepito come non più capace di proteggerci.
Soggetti squilibrati che danno vita a pulsioni omicide al di fuori dell’ambito terroristico, poi, esistono e sono altrettanto pericolose. In questo senso l’enorme diffusione di sostanze stupefacenti negli ultimi anni ha contribuito non poco a minare l’equilibrio di molte menti.
Il rischio per il cittadino non cambia. La causa jihadista ci verrebbe, in ipotesi, comunicata solo in seguito, perché ciò a cui assisteremmo sarebbe solo la vista di un matto furioso che mena fendenti in modo casuale e rabbioso.
Dunque, inseriamo tra i rischi cui siamo soggetti anche quello di vederci attaccati, da un momento all’altro, da qualcuno armato di coltello, che ci si trovi in luoghi isolati o affollati poco cambia.
I danni si contengono durante l’evento
Ancora una volta, il numero di vittime è stato contenuto enormemente dalla reazione immediata degli unici soggetti che materialmente potevano farlo nella immediatezza dei fatti: i presenti all’evento:
- nel caso di Southport, due adulti sono intervenuti durante la mattanza, verosimilmente contribuendo al termine dell’attacco e salvando così un numero non conoscibile di altre vite;
- nel caso di Londra le improvvise pugnalate rivolte all’improvviso contro madre e figlia sono state interrotte dall’intervento di una guardia privata e da commessi dei negozi, tutti presenti all’evento;
- nel caso di Solingen, purtroppo, l’assalitore aveva mietuto un così alto numero di vittime da potersi dare alla fuga.
Davvero si può limitare la circolazione dei coltelli?
Qualche voce ci ha provato anche questa volta. Mettiamo al bando i coltelli! Ed ecco che ci saranno asce, martelli, spranghe, mattarelli, penne a sfera e chi più ne ha più ne metta.
Perché non mettere al bando le mani umane? O lobotomizzare la popolazione mondiale così, incapace di pensare, non penserà nemmeno a uccidere per cambiare le cose?
O, al contrario, perché non evitiamo feste, assembramenti, luoghi affollati, ma anche momenti di intimità in luoghi isolati? Perché, in definitiva, non rinunciamo a vivere? Semplicemente perché non è efficace e nemmeno giusto.
Da cittadini, dobbiamo solo tenere in considerazione (“mappare”) anche il rischio di subire un’aggressione quando usciamo di casa. Una domanda provocatoria: ma in quel passato che viene idealizzato ogni volta che si usano espressioni come “il mondo è impazzito”, davvero potevamo uscire di casa per esempio per affrontare un viaggio e pensare che saremmo stati al sicuro da eventuali aggressioni? Non crediamo proprio.
Che fare?
Dunque, non cediamo al terrore, altrimenti avremo perso in partenza. Non siamo indifferenti se capita qualcosa intorno a noi, altrimenti amplificheremo il messaggio di questi soggetti.
Resta, infine, l’ultima fondamentale domanda: in un momento di grande e profondo cambiamento degli equilibri mondiali, in un momento in cui davvero ogni player geo-politico si sta giocando tutto per assicurarsi un ruolo importante nel nuovo assetto mondiale in via di costruzione, a chi giova tutto questo?
Dopo i fatti di Southport l’Inghilterra è caduta in un clima diffuso di rivolta, che contesta la continua immigrazione, di fatto, di soggetti tutti in età utile per combattere e fisico prestante. In questo senso, l’Inghilterra sta mostrando la via per prima, come spesso è capitato nella sua storia: in questo caso una via fatta di incompatibilità che diventa contrapposizione e, in definitiva, potenziale guerra.
Guerra civile, in un certo senso, e non certo tentativo di invasione frontale. Perché l’invasione non avverrà con la forza (e la conseguente possibilità di essere respinta), ma sta già avvenendo da decenni sotto forma di silente importazione di decine e centinaia di migliaia di individui che non hanno nemmeno potenzialmente possibilità di trovare casa e lavoro, in una sorta di implacabile sostituzione, o quanto meno predeterminata miscellanea, etnica.
Cui prodest? A chi giova? A chi ha bisogno di gestire popolazioni sempre più instabili economicamente e socialmente, disgregate al loro interno, concentrate sulle necessità quotidiane, più ignoranti e, in definitiva, meno esigenti e più facili da gestire, aumentando a dismisura il divario dei mezzi a disposizione del sistema rispetto a quelli a disposizione del cittadino.
Certo, perdersi in questa iperbole non cambia la qualità dell’acqua che percola fino in fondo alla scala sociale, sulle nostre teste, che resta melmosa. A noi cittadini compete solamente la comprensione di quanto accade “sul marciapiede” che calpestiamo tutti i giorni. E su quel marciapiede viene ancora versato sangue.
Prendiamone atto, teniamone conto, e studiamoci un personalissimo piano di prevenzione e, ahinoi, eventuale gestione di quel momento.