Una recente sentenza della corte d’Assise d’appello di Catanzaro porta alla ribalta una questione spinosa: meglio farsi ammazzare che far uso dell’arma d’ordinanza?
L’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega ha scosso il Paese e sollevato una ridda di emozioni, commenti e domande. Una delle quali è perché, vistosi in pericolo, il militare non abbia fatto uso della sua arma. Una specifica risposta a questa domanda non può essere data in questo momento. È possibile, però, svolgere una riflessione di carattere più generale, che prende spunto dalla incidentale tempestività di una sentenza pronunciata dalla corte d’Assise d’appello di Catanzaro, che pochi giorni fa ha assolto due carabinieri (dopo analoga assoluzione in primo grado) dall’accusa di omicidio di un 36enne che era stato colpito a morte dopo aver forzato un posto di blocco a Rossano.
Secondo la ricostruzione delle forze dell’ordine, la vittima era alla guida di un fuoristrada rubato. Il brigadiere Pasquale Greco e l’appuntato Luca Zingarelli, fermi a un posto di blocco, dopo aver rischiato di essere investiti dall’uomo, lo inseguirono sino a una stradina di campagna dove questi invertì la marcia, speronò l’auto di servizio e cercò di investire i militari dirigendosi quindi verso la strada statale 106. A quel punto i carabinieri spararono e un colpo raggiunse Greco alla testa. I due giustificarono la loro condotta sostenendo di essere stati costretti a far uso delle loro pistole di ordinanza per arrestare la corsa del fuggitivo che, con il suo agire spericolato, aveva messo in pericolo la pubblica incolumità.
A fronte dell’evidente linearità della condotta dei due carabinieri, occorre evidenziare due aspetti in questa vicenda: il primo, è che si è giunti a una sentenza in corte d’assise d’appello dopo una assoluzione in primo grado, perché hanno proposto appello il Pm e le parti civili (esercitando una loro legittima facoltà, sia chiaro); il secondo, è che la vicenda risale al 21 gennaio 2011, quindi 8 (otto) anni fa e che ancora non può dirsi conclusa, perché c’è sempre la possibilità che si richieda ricorso in Cassazione, rimettendo ancora una volta tutto in gioco. Si prospetta, quindi, una durata almeno decennale del processo.
Il caso testé citato non è, purtroppo, isolato, anzi rappresenta praticamente la regola piuttosto che l’eccezione. Sia ben chiaro, anche gli appartenenti alle forze dell’ordine non possono ritenersi al di sopra della legge ed è giusto e doveroso che si vaglino i loro atti compiuti in servizio, specialmente se hanno portato alla morte di una persona. Anzi, è necessario sottolineare che per noi un appartenente alle forze dell’ordine che sbaglia, merita di essere punito con maggior rigore rispetto al comune cittadino, perché rappresenta lo Stato.
Ciò premesso, appare abbastanza evidente come un calvario giudiziario capace di impegnare le notti del malcapitato per un decennio se non più, impone evidentemente una riflessione da parte dei colleghi, in particolar modo sulle cosiddette “regole d’ingaggio”, cioè sui presupposti nei quali sia possibile far uso legittimo dell’arma. Evidenziati con apparente chiarezza dall’articolo 53 del codice penale ma, nella realtà, messi in discussione con una vera e propria odissea processuale.
Appare anche abbastanza evidente che, così come si è cercato in Parlamento con la recente revisione della normativa sulla legittima difesa di intervenire su tempi e costi della giustizia per il cittadino che si trovi a far uso delle armi, a maggior ragione siano evidentemente necessari opportuni correttivi per consentire ai servitori dello Stato di svolgere serenamente il loro quotidiano servizio per la collettività, garantendo che la giustizia sia rapida e che, in caso di assoluzione, i relativi costi siano integralmente sostenuti dallo Stato. Anche oggi, per la verità, esiste la possibilità di gratuito patrocinio da parte dell’avvocatura dello Stato per tutti gli appartenenti alla pubblica amministrazione, con però limiti di discrezionalità che, in alcuni casi, hanno comportato risultati paradossali.