Il nuovo mantra degli anti-armi sostiene che più armi diano luogo a più suicidi. Il che, così come per gli omicidi, è assolutamente falso, vediamo perché
Dopo la pubblicazione del rapporto del Censis sulla sicurezza, anche per l’anno 2017 si è dimostrata la tendenza che dura ormai da anni, secondo la quale a un aumento generale delle licenze di porto d’armi (in particolare della tanto temuta e vituperata licenza per Tiro a volo), non solo non corrisponde un aumento degli omicidi, ma anzi questi ultimi sono in costante diminuzione.
Con singolare tempismo, quindi, negli ultimi giorni si sono curiosamente moltiplicate le osservazioni da parte degli anti-armi secondo le quali sarebbero, quantomeno, i suicidi a essere incentivati da una maggior disponibilità di armi tra i cittadini. Il che è egualmente falso, vediamo perché.
A supporto della tesi degli anti-armi si citano numerosi studi condotti negli anni (anche recenti), praticamente tutti però relativi alla situazione statunitense che, per fattori culturali ancor prima che sociali, economici eccetera, non può in alcun modo essere associata a quella dei restati Paesi, sia d’Europa, sia del mondo. Infatti, a fronte del fatto che gli Stati Uniti sono il Paese con il maggior numero di armi in rapporto ai cittadini (con una media di oltre 101 per 100 abitanti), è vero che il maggior numero di suicidi viene perpetrato con armi da fuoco (nel 60,6 per cento dei casi), ma è anche vero che gli Stati Uniti sono praticamente l’unico Paese nel quale si può osservare una tale correlazione tra metodo suicidario e numero di armi circolanti. Il che, stranamente, viene taciuto di norma nell’esibire tali studi, soprattutto quando si pretende che siano applicabili a qualsiasi Paese indifferentemente. La rigorosità di questi studi e soprattutto la loro valenza universale scricchiola ancor di più valutando in modo incrociato il tasso di suicidi per 100 mila abitanti in ciascun Paese del mondo, in rapporto al numero di armi detenute per 100 abitanti: per quanto riguarda quest’ultima classifica gli Stati Uniti sono al primo posto, ma per quanto riguarda il numero totale di suicidi, figurano addirittura al trentesimo.
Incrociando i dati più recenti disponibili tra il tasso di suicidi per 100 mila abitanti e il tasso di armi detenute ogni 100 abitanti, il primo “sillogismo” anti-armi che risulta inoppugnabilmente smontato è quello relativo alla correlazione tra la disponibilità di armi e il totale di suicidi: come appena accennato, gli Stati Uniti sono, e di gran lunga, il Paese con il maggior numero di armi da fuoco in possesso dei cittadini al mondo, ma in quanto all’incidenza dei suicidi sul totale della popolazione risultano al 30° posto: al primo posto per suicidi figura la Groenlandia, con una media di 83 per 100 mila abitanti ogni anno, al secondo la Lituania, al terzo la Corea del Sud. Per questi tre Paesi però, purtroppo, non è disponibile una statistica sul tasso di armi detenute dai cittadini. Lo è, invece, per il quarto Paese in termini di tasso di suicidi, cioè la Guyana (26,4 suicidi per 100 mila abitanti), che invece per quanto riguarda il numero di armi detenute dai cittadini è addirittura al 42° posto, con 14,6 per 100 abitanti. Risulta quindi abbastanza evidente come non sia possibile in alcun modo affermare il parallelismo “più armi uguale più suicidi” in senso assoluto, ed è anche abbastanza ovvio considerando che, per stessa ammissione di coloro i quali svolgono le indagini sul fenomeno suicidario, la tendenza al suicidio in un determinato Paese è legata a moltissimi fattori, di tipo culturale, sociale, di maggiore o minore istruzione, economico, relativo alla qualità dei servizi sociali e dell’assistenza sanitaria e così via.
Si potrebbe, quantomeno, essere portati a sostenere che la disponibilità di armi da fuoco, se non rappresenta un fattore di incentivazione assoluto al suicidio, possa quantomeno costituire un fattore di proporzionalità in senso relativo: in altre parole, si può essere portati a sostenere che in un Paese nel quale circolano più armi, più persone si suicidano tramite armi da fuoco, rispetto al totale. Anche in questo caso, e bisogna dire per fortuna, i dati statistici disponibili smentiscono con assoluta decisione questa ipotesi. A puro titolo di esempio, e per restare a casa nostra nel vecchio continente, tra i Paesi che hanno una maggiore incidenza di armi tra i cittadini figurano la Francia e la Germania. A fronte del fatto che il tasso di armi legalmente detenute è pressoché identico tra i due Paesi (31,2 per 100 abitanti la Francia, 30,3 la Germania), la percentuale di suicidi con armi da fuoco è del 22,1 per cento in Francia e meno della metà, cioè il 10,3 per cento, in Germania. Se esistesse una correlazione diretta tra la disponibilità dell’arma e il suo impiego per il suicidio, sarebbe logico attendersi che questi dati siano molto vicini, invece la forbice è assolutamente estrema. Ed è ancora più estrema se si pensa che, per esempio, in un Paese come l’Uruguay, nel quale il numero di armi detenute per 100 abitanti è praticamente identico a quello della Francia (31,8), il tasso di suicidi commessi con armi da fuoco è del 47,8 per cento. Questa è la prova del nove che a una distribuzione di armi praticamente identica, consegue un impiego tra i più diversi per porre fine ai propri giorni.
Anche negli studi relativi alla situazione statunitense, comunque, i dati sono alquanto discordanti e non possono in alcun modo ritenersi completi, tanto che gli stessi enti che li hanno effettuati, spesso in tempi recenti li hanno smentiti: è il caso dell’università di Harvard, che ha recentemente pubblicato una indagine nella quale ha ridimensionato, per non dire smentito, le affermazioni che la medesima università aveva diffuso pochi anni prima. Al di là di questo aspetto, restano comunque molti dubbi sulla effettiva valenza statistica delle indagini compiute sull’argomento, atteso il fatto che la completezza dell’indagine è quantomeno opinabile. Per esempio, se ovviamente è logico aspettarsi che ogni cittadino americano che si è tolto la vita con un’arma avesse l’effettiva disponibilità di un’arma, nessuno degli studi recentemente pubblicati si è preoccupato di analizzare se anche i soggetti che si sono suicidati con metodi differenti, avessero o meno la possibilità di accedere a un’arma. Il che, proprio a livello statistico e conoscitivo, è un tassello fondamentale (e sono, per l’appunto, noti diversi casi di possessori di armi che non hanno utilizzato un’arma per suicidarsi). Allo stesso modo, negli studi statunitensi si mette in correlazione il suicidio “d’impulso” con la possibilità di ottenere un’arma da fuoco legalmente in pochi minuti per chi non ne sia già detentore, laddove invece in Europa la procedura per essere autorizzati all’acquisto di un’arma richiede giorni se non mesi. Anche in questo caso, quindi, la “trasportabilità” degli studi statunitensi è impossibile.
La dimostrazione più drammaticamente emblematica della mancanza di correlazione tra la disponibilità di un’arma e gli intenti suicidi è arrivata, purtroppo, poche settimane fa con l’insano gesto commesso nel Pescarese da Fausto Filippone, l’uomo che pur avendo iniziato la procedura per ottenere un porto d’armi, ha ucciso la moglie gettandola dal balcone, ha ucciso la figlia gettandola da un cavalcavia e poi si è gettato allo stesso modo.