Pubblicate le motivazioni della sentenza di proscioglimento per gli indagati della vicenda Zastava M76: i teoremi della procura bocciati su tutta la linea
Sono state pubblicate le motivazioni della sentenza pronunciata dal Giudice per l’udienza preliminare di Brescia lo scorso 18 giugno, che ha disposto il non luogo a procedere per tutti gli indagati per la vicenda Zastava M76, con la sola eccezione di quelli che avevano richiesto il trasferimento del processo ad altra sede.
Come è noto, infatti, oltre a essere stato disposto nell’ormai lontano 2014 il sequestro su tutto il territorio nazionale di oltre 1.200 esemplari di queste carabine, commercializzate in Italia nel corso dei dieci anni precedenti, erano stati iscritti nel registro degli indagati tutti gli armieri (grossisti e dettaglianti) che avessero in tale lasso di tempo effettuato l’importazione anche di uno solo di questi esemplari, con l’accusa di aver importato e commercializzato armi da guerra, perché alla fine del 2013 il Banco di prova si era incidentalmente accorto che ponendo la leva della sicura in posizione intermedia tra quella di sicurezza e quella di fuoco, l’arma poteva sparare a raffica. “Ciò posto”, si legge nella sentenza, “è necessario verificare se sussista la prova della consapevolezza di tale caratteristica, come detto difforme rispetto alle caratteristiche tecniche dichiarate dal produttore, in capo agli odierni imputati…(omissis)… a tale quesito non può che darsi risposta negativa. Ed invero, difettando del tutto la prova positiva della conoscenza, in capo ad alcuno degli importatori (almeno fino alla prima decade di ottobre dell’anno 2014, quando le agenzie di stampa e gli organi di rappresentanza della categoria avevano diffuso la notizia del sequestro delle carabine Zastava M76), deve concludersi che la prova di tale conoscenza neppure può essere tratta da inferenze di tipo logico. È infatti impossibile aderire al postulato del pubblico ministero, secondo il quale, stanti le caratteristiche dell’arma, e quanto sulle medesime sarebbe stato notorio tra gli addetti ai lavori, gli importatori dovessero conoscere la loro attitudine a sparare a raffica; ed invero la fallacità di tale assioma è dimostrata per tabulas dal rilievo che altrettanto esperti in materia di armi erano i membri della commissione ministeriale chiamata a verificare le caratteristiche generali del modello di arma, e quelli dell’organo (Banco di prova) chiamato a testare ciascun singolo esemplare introdotto in Italia, ovvero posto in vendita – soggetti tutti che tali caratteristiche (asseritamente evidenti e/o notorie) non avevano all’evidenza riscontrato, tanto che dapprima la commissione ministeriale aveva classificato la carabina M76 della casa produttrice Zastava come arma comune da sparo; successivamente il Banco di prova di Gardone Val Trompia aveva parimenti classificato come armi comuni da sparo tutte le carabine di quel modello bancate fino al marzo 2013; soggetti che, se davvero le caratteristiche dell’arma fossero state evidentemente e/o notoriamente difformi rispetto a quelle dichiarate dal produttore, avrebbero dovuto essere chiamati a rispondere di reati di falso e/o di corruzione – cosa che il Pubblico ministero non ha significativamente inteso fare (proprio in difetto della prova positiva di tale presunta conoscenza). Al contrario proprio la circostanza che dapprima il modello dell’arma, poi numerosi singoli esemplari della stessa abbiano passato positivamente il vaglio degli organi di controllo preposti alla verifica delle loro caratteristiche, porta a concludere che per tutti gli imputati sopra indicati la mancata verifica circa la corrispondenza delle effettive caratteristiche tecniche dell’arma rispetto a quelle dichiarate e, di conseguenza, della reale natura delle armi importate, detenute e commercializzate, deve ascriversi ad un errore scusabile, in quanto conseguente al loro giustificato affidamento all’esito positivo dei controlli che dapprima tale arma aveva superato in via generale, e poi i singoli esemplari avevano superato in via particolare”.
Il pubblico ministero aveva anche tentato, in extremis, di spacciare le carabine M76 come armi da guerra in virtù di alcune loro caratteristiche tecniche, contestate peraltro punto su punto dalla memoria difensiva presentata dall’avvocato Antonio Bana, presidente di Assoarmieri: “segnatamente”, si legge nella sentenza, “la presenza di un eccentrico in prossimità della volata della canna necessario per il montaggio del silenziatore e la presenza del regolatore di pressione del gas; la presenza della funzione della leva di scatto azionata dal porta otturatore; la realizzazione della carcassa a partire da un unico blocco di acciaio fresato successivamente…(omissis)… Ed invero, a prescindere che tali rilievi non colgono nel segno, dal momento che le caratteristiche tecniche censurate dal pubblico ministero non appaiono idonee ad alterare la natura di armi comuni da sparo di armi concepite come carabine di precisione (che, in quanto tali, mai potrebbero essere in dotazione di reparti d’assalto), come ben illustrato ai fgg. 12-14 della memoria della difesa F.L.P., …(omissis)… vale lo stesso argomento sopra enunciato: che, cioè, anche qualora tali caratteristiche dovessero ritenersi tali da ritenerle “caratteristiche balistiche o di impiego comuni con le armi da guerra”, il mancato riconoscimento di tale circostanza dovrebbe ascriversi ad errore scusabile, in quanto conseguente al giustificato affidamento da parte degli importatori all’esito positivo dei controlli che dapprima tale arma aveva superato in via generale, e poi i singoli esemplari avevano superato in via particolare”.
Lapidarie le conclusioni: “Nel caso in esame deve rimarcarsi che, come più sopra illustrato, la condotta della pubblica accusa (che, a prescindere da imputazioni collegate a errori storici, contestando profili di violazioni di norme non ancora in vigore all’epoca delle condotte incriminate, ha ancorato la propria ipotesi accusatoria, circa la sussistenza del dolo, in mancanza di riscontri narrativi o documentali, su presunte prove logiche prive della necessaria univocità), rende assolutamente prevedibile che il materiale probatorio in atti non possa giovarsi di spunti suscettibili di sviluppo in senso favorevole alla pubblica accusa in sede dibattimentale, anche in considerazione del tempo decorso dalle condotte incriminate”.
In altre parole, era un castello accusatorio costruito sul nulla, come peraltro abbiamo affermato con cognizione di causa negli ultimi (quasi) sette anni. E nel nulla è finito, anche se purtroppo ci sono voluti anni trascorsi nel patema e nell’angoscia da parte di professionisti del settore dalla fedina penale immacolata.