Caso Capovani: le ipocrisie dello Stato su sicurezza e Porto d’armi

I porti d’arma per difesa personale, in Italia, sono oggetto ormai da alcuni anni di una ben precisa “guerra” da parte del ministero dell’Interno e delle prefetture. Una “guerra” che ha portato in vent’anni esatti il totale delle licenze rilasciate in Italia (porto di pistola per difesa personale) dalle 45.618 unità del 2002, alle 11.785 del 2022. Una falcidie che, nelle motivazioni di rigetto delle istanze, le questure giustificano con due specifiche indicazioni, che si ritrovano pressoché identiche da Nord a Sud e da Est a Ovest della penisola, tanto da far venire il sospetto che vi sia, appunto, una ben precisa “regia” centrale da Roma e che non sia il semplice eccesso di zelo di singoli funzionari.

 

Un vero mantra
La prima indicazione per respingere le istanze è che “non esiste una professione che esponga di per sé a un rischio per la sicurezza”. Sei gioielliere? Finché non ti rapinano, non sei a rischio. Durante la tua prima rapina, ti picchiano o ti sparano? Problemi tuoi.

La seconda è che il “dimostrato bisogno” da parte del richiedente non può dirsi dimostrato fintanto che il richiedente stesso non possa dire di essere sopravvissuto almeno a una aggressione o a specifiche minacce per la propria incolumità. In pratica, il porto d’armi viene concesso ai superstiti.

Questo perché, attenzione, deve essere lo Stato a difenderci. E lo Stato è talmente bravo, talmente capace di difenderci, che non c’è bisogno per i cittadini di girare armati. O meglio: per i cittadini comuni, perché politici e funzionari ministeriali possono avere diritto alla scorta, magistrati e altri cittadini “scelti” (tra cui, guarda caso, prefetti e vice prefetti, guarda alle volte l’ironia della vita) possono girare armati semplicemente per la loro “qualità permanente” senza neanche dover presentare un certificato medico. Lo dice quella legge “fascista” del regolamento di esecuzione al Tulps (art. 73) che però, guarda caso, nell’Italia Repubblicana ha fatto comodo conservare.
Ma andiamo avanti.

Il caso della psichiatra Barbara Capovani evidenzia tutte le ipocrisie, ma a questo punto ci possiamo permetterle di chiamarle menzogne, del “sistema prefettizio” di giustificazioni sul porto d’armi e del refrain secondo il quale nella moderna società, il cittadino non ha bisogno di circolare armato. Come si è purtroppo drammaticamente dimostrato (e come avevamo detto e ripetuto in tempi non sospetti), purtroppo la prima aggressione che un soggetto a rischio può subire, può anche essere l’ultima. Ciò è quanto è avvenuto alla povera dottoressa, che è stata dichiarata clinicamente morta dopo essere stata bestialmente sprangata e picchiata da un soggetto che, adesso lo si scopre, era “noto alle forze dell’ordine”, era stato in cura proprio presso la struttura psichiatrica di Pisa e lanciava dai suoi profili social messaggi deliranti, nei quali accusava proprio la sua vittima di fare sacrifici umani di bambini per riti satanici e altre assurdità.

Cosa? come? Quando un papà (sbagliando, sia chiaro) pubblica sul proprio profilo Facebook la foto del proprio figlio minore con in mano una pistola, la polizia postale gli fa sequestrare le armi in meno di un nanosecondo; quando un no vax si permette di pubblicare sul proprio profilo insulti alle forze dell’ordine, gli bussano alla porta di casa per portargli via le armi in un battito di ciglia; quando un gasato di film d’azione dichiara sulle sue pagine Facebook di voler fare il “foreign fighter” in Ucraina, si trova tra capo e collo una denuncia penale senza neanche capire da quale parte gli sia giunta e senza neanche, ancora, essere partito per la guerra (con contestuale sequestro delle armi eventualmente detenute, ovviamente), e a un pazzo maniaco già ripetutamente noto alle forze dell’ordine per averne combinate di tutti i colori, evidentemente nessuno ritiene sia il caso di dare un’occhiatina sui suoi profili Facebook, per capire se sia il caso di preoccuparsi? Evidentemente, così è. Molto bene: il cittadino, quindi, difendersi da solo non può, perché “ci pensa lo Stato”, ma lo Stato, a quanto pare, ha le sue priorità e tra queste priorità, evidentemente, non figura la tutela dei cittadini da parte di matti conclamati. Confortante, no?

Con questo vogliamo dire che per la povera Capovani, avrebbe fatto la differenza avere un porto d’armi? Molto probabilmente no. Ma magari, una volta accertata la sua situazione di rischio, avrebbe potuto avere anche lei una scorta? Come i “vip” della nostra penisola? Chissà. A questo punto la domanda è accademica.

Mestiere a rischio? Sì
Sul fatto che “non esistono professioni di per sé a rischio”, vero e proprio mantra delle prefetture, giova riportare quanto pubblicato dalla presidente della Società italiana di psichiatria, Emi Bondi, pubblicata proprio all’indomani dell’aggressione di Pisa: “In soli due mesi, a Lodi, a Chioggia e – proprio ieri – Pisa, sono avvenute aggressioni violentissime a medici e operatori di psichiatria. Due nei pronto soccorso e l’ultima all’uscita del reparto dell’Ospedale Santa Chiara dove una nostra collega psichiatra, la dottoressa Barbara Capovani, è in fin di vita. Come Società Italiana di Psichiatria non possiamo che essere profondamente addolorati per quanto accaduto alla collega. Oltre alla solidarietà mia personale e di tutta la Società Italiana di Psichiatria alla famiglia e ai colleghi di Pisa, non possiamo non lanciare un allarme che riguarda la nostra sicurezza, di medici e operatori, nei dipartimenti di psichiatria e in generale nelle strutture ospedaliere. Ogni giorno riceviamo decine di segnalazioni di fatti minori ma non per questo meno importanti. Non si tratta di episodi isolati, ma più che quotidiani, quasi orari. La psichiatria, secondo i dati Anaao-Assomed è la branca della medicina più colpita da questi episodi (il 34%), seguita dai pronto soccorso (20%). Ma nessun operatore sanitario ne è esente. Inoltre, molti episodi minori non vengono segnalati mentre dovrebbero essere identificati come “eventi sentinella”. Episodi che pongono la questione enorme della sicurezza degli operatori. “Il problema della collaborazione delle forze dell’ordine e in generale della sicurezza sui luoghi di lavoro non riguarda infatti solo la (imprescindibile) incolumità degli operatori. Impatta anche sul loro modo di lavorare e riguarda in generale anche il mandato della psichiatria. Perché se gli operatori sanno di poter essere tutelati in caso di necessità, riescono a lavorare meglio. In relazione al mandato della psichiatria, noi possiamo eventualmente gestire con le cure i processi alla base dell’aggressività, qualora questi fossero correlati a patologie, ma non siamo in grado di difenderci dalle violenze. C’è una legge di pochi anni fa (L 14/08/2020 n 113) secondo cui “al fine di prevenire episodi di aggressione e di violenza, le strutture presso cui opera il personale prevedono nei propri piani per la sicurezza misure volte a stipulare specifici protocolli operativi con le forze di polizia per garantire il loro tempestivo intervento”. Protocolli, nella nostra esperienza, difficili da sottoscrivere e da attuare. Serve dunque un intervento concreto a livello Parlamentare e delle Regioni. Servono inoltre investimenti nella sanità in termini di capitale umano, e strutture adeguate. I tagli delle risorse e di personale degli ultimi 2 decenni, come il Covid ha messo in evidenza, hanno ridotto all’estremo i servizi sanitari pubblici che fanno sempre più fatica a rispondere e intercettare precocemente i bisogni dei pazienti, trovandosi a gestire poi situazioni emergenziali molto gravi”.

Questo significa che si debbano armare tutti i medici? Assolutamente no. È del tutto evidente che le aree di intervento sono ben altre e sono quelle evidenziate dall’associazione di categoria. Non si può fare a meno, tuttavia, di osservare come lo stato di cose conclamato da questa situazione debba anche prevedere che i professionisti che ritengono di farlo, possano scegliere uno strumento per la propria tutela che possa essere il porto d’armi per difesa personale, senza sentirsi prendere in giro dagli uffici armi delle prefetture, con motivazioni avulse da qualsivoglia realtà storica del nostro territorio. Occorre, soprattutto, ribadire che le motivazioni che le prefetture hanno adottato negli ultimi anni per rigettare le richieste di rilascio o rinnovo del porto d’armi per difesa, si basano su falsità conclamate.

Occorre, quindi, una ben precisa riforma della normativa sul rilascio dei porti d’arma, che ridimensioni la discrezionalità che, negli ultimi anni, si è fatta dilagante da parte delle prefetture, fino a travalicare i confini della realtà per approdare su un pianeta tutto loro.