Prosegue la corsa a chi le spara più grosse sul settore delle armi: ovviamente soltanto l’Opal ha diritto di parola, sulle associazioni del nostro settore si fanno tante “ipotesi” ma nessuno si preoccupa di interpellarle
Nuovo giorno, nuovo ritornello anti-armi, condito a suon di informazione a senso unico, senza alcun contraddittorio e in completo spregio verso la deontologia professionale, anche verso il buon senso. Protagonista del gesto “eroico” in questo caso è il collega Alessandro Da Rold che sul sito lettera43.it si lancia in un concentrato “da manuale” di luoghi comuni e (dis)informazione sulle armi, dando una bella spolverata ai classici luoghi comuni: dalla fantomatica “lobby delle armi” al consueto arsenale di informazioni parziali e distorte prodotte dal portavoce dell’Opal, Giorgio Beretta. Sì, perché ovviamente l’unica voce che si può ascoltare nell’articolo, sotto forma di ampi virgolettati, è quella di Beretta (Giorgio, non Pietro Spa…) che, notoriamente, è su posizioni nettamente anti-armi e proibizionistiche. Malgrado sia citata l’Anpam, non c’è evidentemente spazio per alcuna replica né da parte dell’Associazione nazionale dei produttori di armi e munizioni, né ovviamente per qualsivoglia altra voce che non sia schierata dalla parte “giusta”. La domanda che abbiamo voluto porre al collega (e che ancora attende una qualsivoglia risposta) è: ma questo, è giornalismo? Al di là di questo, vediamo alcune delle “perle” più straordinarie di questo lavoro, per vedere se finalmente sia possibile, almeno “a casa nostra”, far sentire una voce non solo (e non tanto…) contraria, ma quantomeno più consapevole di come stia la realtà dei fatti!
L’articolo attacca, è il caso di dirlo, con il botto: dopo aver stigmatizzato la “sponsorizzazione” del leader leghista Matteo Salvini nei confronti del mercato delle armi, Da Rold osserva con evidente sconcerto “dall’altro lato un centrosinistra silente dopo l’attacco terroristico di Macerata contro sei immigrati, ma sempre disponibile a livello di amministrazione pubblica a ospitare fiere per promuovere le armi comuni come nel caso di Hit show”. Come sia possibile, anche da un punto di vista strettamente costituzionale, subordinare una fiera che ha per oggetto strumenti per lo sport, la caccia e la difesa personale perfettamente consentiti dalla legge al placet dell’autorità politica locale non è dato sapere, ma evidentemente Da Rold risiede in Corea del Nord, e quindi è abituato diversamente. Buon per lui!
Prosegue, quindi, con un ulteriore salto nel buio con la logica, dapprima chiedendosi se “anche in Italia possa nascere una National rifle association come negli Stati Uniti, capace di finanziare la politica, di influenzare lavori parlamentari e scelte di governo sul tema”, per poi osservare come “per rispondere a questa domanda basterebbe avere dei dati ufficiali da parte del ministero dell’Interno o quantomeno dalle aziende del settore, ma questo non avviene, al massimo si possono avere delle stime. Eppure sarebbe importante non solo per prevenire casi come quello di Traini, una persona che possedeva un regolare porto d’armi per il poligono di tiro, ma sarebbe utile anche per capire la vastità della diffusione delle armi nel nostro Paese”. Evidentemente il collega trascura di considerare che non può essere da solo il numero di armi vendute a fare la forza di una associazione (o di un gruppo di associazioni) di settore, quanto il numero degli iscritti. Tanto è vero che l’Italia è uno dei più importanti produttori europei e mondiali di armi sportive e da caccia, ma malgrado questo non ha, al momento, un portavoce autorevole a livello politico sulle istanze del settore.
A questo punto, l’articolo lascia la parola a Giorgio Beretta di Opal, che inizia a ripetere pedissequamente le sue tesi distorte: “il forte incremento delle richieste per porto d'armi per tiro sportivo rivela che c'è un'ampia percentuale di persone che non intendono praticare attività sportive, ma che richiedono questa licenza al solo fine di poter detenere armi in casa”, esordisce Beretta, per proseguire affermando che la legislazione in materia di armi “è di fatto sostanzialmente permissiva in materia di detenzione di armi: oggi, a qualunque cittadino incensurato, esente da malattie nervose e psichiche, non alcolista o tossicomane, è generalmente consentito di possedere una o più armi, finanche un numero illimitato di fucili da caccia”.
E qui, però, la domanda occorre farsela: in un Paese democratico, quale l’Italia pretenderebbe di essere, quale di preciso dovrebbe essere il requisito necessario e sufficiente per essere autorizzati a detenere armi oltre a essere incensurati, sani di mente e scevri da dipendenze da alcool o sostanze varie? Forse l’iscrizione a un determinato partito? E riguardo al fatto che chi ottiene un porto d’armi “sportivo” pratichi poi effettivamente o meno lo sport, evidentemente a qualcuno non è chiaro che la licenza di porto d’armi è semplicemente una certificazione del fatto che la persona ha le carte in regola per poter acquistare un’arma. Così come anche il porto di fucile per uso caccia che però, oltre a consentire l’acquisto dell’arma e il suo trasporto (scarica) al poligono, consente anche di portarla carica sul terreno di caccia. Ma quindi, Giorgio Beretta forse è obbligato a guidare per un numero minimo di chilometri ogni anno, per consenvare la patente di guida?
Interessante anche l’osservazione di Beretta secondo cui “un'analisi incrociata dei dati sulle licenze e sulle armi effettivamente possedute permetterebbe di rilevare che vi sono alcuni gruppi di persone che ne detengono un alto numero. Se si considera, infatti, che la legge italiana permette di detenere un numero illimitato di fucili da caccia è possibile che vi siano gruppi di persone che ne detengano, ovviamente tutte denunciate, una quantità consistente”. Quindi, appare logico concludere che, per Beretta, la pericolosità sociale di un cittadino armato è direttamente proporzionale al numero di armi detenute: salvo, però, essere smentito clamorosamente dalla realtà dei fatti, visto che nei (per fortuna pochi) casi in cui legittimi possessori di armi hanno dato luogo a fatti criminali eclatanti (come Macerata, ma anche come Calderini a Milano nel 2003), erano in realtà detentori di un numero molto basso di armi (Traini e Calderini, per esempio, una sola!). Si potrebbe, a tal fine, provare a incentivare una riflessione osservando come, forse, potrebbe paradossalmente essere più motivato a “rigare diritto” un collezionista che ha un “immobilizzo di capitale” sotto forma di armi di qualche centinaio di migliaia di euro, ma evidentemente si tratta di concetti troppo sofisticati.
Ma la vera perla arriva quando Beretta afferma: “Se pensiamo che fino all'entrata in vigore nell'aprile del 2015 del decreto Antiterrorismo anche le carabine semi-automatiche somiglianti a un’arma automatica – tipo quelle che sono state usate in varie stragi negli Stati Uniti – rientravano tra le armi da caccia e che, se acquistate prima del 21 aprile 2015, possono tuttora essere detenute in ampio numero con semplice denuncia, credo potrebbe emergere anche un problema riguardo alla diffusione di queste armi relativamente alla sicurezza pubblica. Non dimentichiamo infine che, con una mera licenza per tiro sportivo, è tuttora permesso detenere, previa denuncia, caricatori amovibili con capacità fino a 29 colpi, proprio come quelli utilizzati nelle stragi negli Stati Uniti”. Anche in questo caso l’informazione viene trasmessa in modo perfettamente distorto: al di là del fatto che non è vero che sia la licenza “per tiro sportivo” a consentire la detenzione di caricatori fino a 29 colpi, suggerire il fatto che la diffusione di tali armi costituisca un pericolo per la pubblica sicurezza è destituita di ogni fondamento, atteso il fatto (facilmente verificabile) che in nessuno dei casi di cronaca degli ultimi trent’anni un’arma di quel tipo, legittimamente detenuta, risulta sia MAI stata utilizzata per commettere reati.
Si prosegue con uno straordinario uno-due tra Beretta e l’autore dell’articolo: “L'Anpam (Associazione nazionale produtttori di armi e munizioni) potrebbe fornire dati più precisi che certamente ha, visto che è in grado di fornire le percentuali di crescita e diminuzione delle vendite per tipologia e per province. «Ma nonostante Anpam si fosse impegnata già dall'anno scorso a fornire i numeri delle vendite di armi in Italia», aggiunge Beretta, «questi dati continuano a restare un mistero: forse perché rivelerebbero un costante decremento delle vendite di fucili da caccia a favore di pistole, carabine, fucili semi-automatici e fucili a pompa altamente letali non tanto per scopi di tipo sportivo ma per un eventuale utilizzo difensivo?»”.
In poche righe, si sono riuscite a concentrare sia faziosità, sia falsità, in numero considerevole: in primo luogo, perché oggi sia i tanto temuti “fucili a pompa”, sia le pistole concepite per la difesa personale, sono ampiamente utilizzate in discipline sportive associate al Coni (come il Tiro dinamico); poi, perché non c’è bisogno dell’Anpam per conoscere l’andamento della proporzione tra armi da caccia e armi “altamente letali”, basterebbe chiedere alla camera di commercio i dati sulla produzione armiera che il Banco non solo possiede, ma mette annualmente a disposizione (tenendo naturalmente presente che oltre il 90 per cento della produzione è destinato all’estero); in terzo luogo, se qualcuno si fosse preoccupato di contattare l’Anpam avrebbe potuto scoprire che la prima analisi dei dati statistici sulle vendite in Italia è stata avviata lo scorso anno, ma ci vorrà almeno un bienno per poter disporre di dati sufficienti a essere di una qualche utilità. Per non parlare del fatto che essendo l’Anpam una associazione di produttori e non di commercianti, dai dati statistici potranno verosimilmente rimanere escluse le informazioni sulla vendita dell’usato, che rappresentano però una percentuale significativa delle vendite.
Non può mancare, ovviamente, il pistolotto finale sulla “lobby”, che ovviamente dà solo ed esclusivamente voce alle ipotesi di Beretta: “E poi ci sono appunto i comitati che si fanno portatori di sviluppare e accorpare interessi comuni sulla diffusione e sul diritto dei cittadini di possedere delle armi. Quello che era un gruppo tutto sommato marginale e irrilevante è diventato, grazie all'accreditamento e al supporto dei produttori di armi, un effettivo comitato che agisce come una lobby, in modo ben poco trasparente”.
Evidentemente non è chiaro (o forse lo è, ma fa comodo l’equivoco) a Beretta la differenza tra una associazione di tutela dei diritti dei legali possessori di armi e una “lobby”, ma anche in quel caso, se è un problema capire chi siano i finanziatori, non bastava semplicemente chiedere alle suddette associazioni? E a proposito, visto che vogliamo parlare di trasparenza, perché l’Opal non scrive chiaro e tondo sul proprio sito quali siano le SUE fonti di finanziamento?
Siamo certi di aver tediato la maggior parte dei nostri lettori, con queste considerazioni, ma perdonateci se chiudiamo il discorso con una considerazione finale: nessuno, ovviamente, dice che l’Opal o il signor Beretta non debbano avere opinioni proprie e non possano avere tutta la libertà di manifestarle. Quello che non si riesce a capire, soprattutto considerando le norme che regolano la deontologia professionale dei giornalisti (il nuovo codice deontologico è del 2016…) è perché sia solo Beretta ad avere il diritto e la facoltà di manifestare le proprie idee, e invece il settore degli appassionati o del commercio legale delle armi, non possa mai avere diritto di parola. La domanda, quindi, rimane: questo, è giornalismo?