In previsione del convegno di venerdì prossimo a Milano, ecco l’europensiero di Stefano Maullu sulle armi e sui legittimi detentori.
Il prossimo venerdì, al palazzo Stelline di Milano il convegno Le armi in Italia, un valore da difendere, un comparto da supportare, organizzato dall’eurodeputato di Fratelli d’Italia Stefano Maullu, da tempo impegnato in battaglie a favore del comparto armiero. In previsione di quell’incontro, con un importante panel di esperti, ecco la nostra intervista a Maullu.
Industria e artigianato, l'Italia delle armi ha valore assoluto in Italia e nel mondo. Come sottolinearlo ancora?
«Parliamo di un settore di eccellenza in Italia, di un valore di cui bisogna informare a fronte di una costante campagna che ne vorrebbe mettere in luce solo aspetti negativi e controversi. Parliamo di un comparto che in Italia vale qualcosa come 7 miliardi di euro, ponendo il nostro Paese ai vertici nel mondo. È la storia di persone, competenze, tradizioni, identità, di centinaia di imprese di enorme qualità che oggi più che mai, in un momento di crisi economica globale che ha colpito anche l'Italia, vanno difese e supportate in ogni sede e con ogni mezzo».
Il problema della “cattiva” percezione delle armi. È un fatto più culturale o più ideologico?
«Sicuramente ideologico, proprio perché tramite una campagna puramente ideologica qualcuno sta provando a formare una vera e propria cultura “anti armi”. È un'operazione capillare, talvolta subdola, con la quale si vuole destrutturare tutto quel valore di cui parlavamo poco fa. È pericolosamente ideologica proprio perché non si basa su fatti, numeri, dati, bensì su interpretazioni del tutto slegate dalla realtà, con l'obiettivo di indicare nelle armi un male assoluto da combattere in modo del tutto pregiudizievole. Di fronte a tutto questo è necessario reagire e lo si deve fare con la forza della ragione e della realtà che ci racconta ben altra verità».
Lo studio del professor De Nardis ha messo punti fermi sugli omicidi con armi legalmente detenute: sono numeri rilevanti. Occorre dare pubblicità alla ricerca, non crede?
«Concordo, anche perché un lavoro di questo tipo colma una lacuna nel dibattito all'interno del contesto italiano, con dati oggettivi che evidentemente qualcuno ha interesse a non divulgare come si dovrebbe. Lo studio del professor De Nardis mostra come il tasso di omicidi sia più basso di circa il 20% tra i detentori di armi: è evidente nei numeri, quindi, come non si possa sostenere che la disponibilità di un'arma da fuoco rappresenti un incentivo per commettere reati. Il numero di armi detenute e di detentori non incide sul numero di reati compiuti con le armi, in realtà è esattamente il contrario. Emerge poi una vera e propria cultura della sicurezza che caratterizza il mondo sportivo armiero e quello venatorio, una cultura che andrebbe sviluppata e incentivata proprio per ridurre l'abuso delle armi. Sono solo alcuni aspetti di un lavoro di grande valore che va comunicato bene e l'evento che organizziamo a Milano il 12 aprile va proprio in questa direzione: i dati e i numeri devono essere più forti di qualsiasi ideologia».
Anche l'accesso al credito, a causa delle banche cosiddette etiche, rappresenta un limite per la produzione armiera. Qualche suggerimento?
«La questione dell’accesso al credito rappresenta una discriminazione ideologica nei confronti di un settore industriale di interesse nazionale fondamentale, che oltretutto rappresenta parte della cultura italiana e come emerge dai dati già citati non mette a rischio la sicurezza individuale dei cittadini italiani. Un modo per poter superare l’impasse costituito dalla difficoltà dell’accesso al credito, oltre che a rivolgersi ad altre banche, è continuare a condividere e rendere più pubblico possibile il risultato degli studi sul possesso di armi. Quei dati, insieme alla consapevolezza del valore della produzione di armi in Italia, dovrebbero far capire alle banche che oltre a una questione di presunta etica, c’è anche un mercato intero che perderebbero, non permettendo l’accesso al credito. Senza considerare, inoltre, che tutto ciò rappresenta una discriminazione ai produttori d’armi. Andrebbe stimolata la ricerca sulle banche etiche, in quanto non si comprende come la produzione di armi, e dunque fornitura di difesa, rappresenterebbe un’attività non etica. In questo campo, si interrogano vari autori, tra l’altro. Su tutti, Cristopher Marquis, ha pubblicato un case study sull’Harvard business review in merito alle difficoltà di ritenere non etico finanziare un produttore d’armi dal punto di vista di una banca etica».
In Europa lei si è abbondantemente accorto che il problema delle armi è stato malamente gestito in occasione della revisione della direttiva. Ora il problema della marcatura. La produzione italiana ha la competenza, ma non viene ascoltata…
«Il 13 giugno 2017 è entrata in vigore la cosiddetta “direttiva antiterrorismo” dell’Unione europea che si occupa delle specifiche tecniche per la marcatura delle armi da fuoco e delle loro componenti essenziali. Una delle preoccupazioni che hanno portato all’adozione dell’atto è stata quella di formare un chiaro percorso di tracciabilità delle armi. Per farlo hanno previsto dei chiari oneri da parte dei produttori per ogni singola componente essenziale. Tuttavia il testo della direttiva non è chiaro e questo ha portato produttori italiani, assieme a produttori austriaci, belgi, francesi e tedeschi, a richiedere all’ufficio della Commissione europea una serie di indicazioni sull’interpretazione da fornire a riguardo della marcatura, come per esempio quali fossero le parti essenziali da contrassegnare sulle armi assemblate, quali font e la grandezza di essi da utilizzare per la marcatura stessa, in quanto alcune parti essenziali potrebbero essere estremamente piccole e/o caratterizzate da superfici irregolari. I produttori europei suggeriscono di utilizzare la procedura di marcatura già in vigore negli Stati Uniti. Hanno chiesto inoltre che nella procedura di marcatura, il logo dell’azienda possa sostituire il nome completo. Si crea dunque un regime confuso e non armonizzato, che può portare a limiti e fraintendimenti nella circolazione delle armi nel mercato europeo e inoltre danneggiare la concorrenza. Risultato assurdo, considerando che lo scopo originario della prima direttiva sulle armi in ambito europeo, la 91/477 (che la già citata 2017/853 emenda) era volta proprio ad armonizzare le diverse normative nazionali per stimolare la circolazione delle armi nel mercato unico europeo».
È prevista già a breve una verifica sull'applicazione della direttiva armi. Come prevenire ulteriori restrizioni?
«Occorre innanzitutto avere regole più chiare sulla marcatura che possano agevolare l’ingresso nel mercato delle aziende italiane. I produttori italiani hanno accettato di buon grado ogni nuova normativa, ma non si deve dare la zappa sui piedi a chi segue le regole e ha chiesto alcune necessarie spiegazioni all’ufficio legale della Commissione europea. Dunque regole più chiare, per favorire tutti. E, inoltre, bisognerebbe incrementare ancora di più il regime di flessibilità previsto dalla direttiva. Per esempio, la direttiva crea lo spazio giuridico per l’aumento del numero di armi sportive che possono legittimamente detenersi e delle relative munizioni. Ma questa non rappresenta una liberalizzazione perché del resto non aumenta il numero di soggetti legittimati all’uso delle armi, ma solo il numero delle armi che si possono tenere in possesso. Soprattutto, non esiste alcuna prova dell’esistenza di un rapporto di proporzionalità diretta tra il numero delle armi in circolazione e il numero dei delitti compiuti attraverso il loro impiego. In particolare, se più armi significasse più morti e meno armi significasse meno morti, ne dovrebbe conseguire che le aree geografiche con un livello più alto di possessori d’armi dovrebbero avere più omicidi di quelle con meno possessori d’armi, che i gruppi demografici con più possessori d’armi dovrebbero essere più inclini all’omicidio di quelli con meno possessori d’armi, che i periodi storici nei quali sono aumentati i possessori d’armi dovrebbero avere un numero più alto d’omicidi rispetto a quelli in cui le armi si sono diffuse di meno. I risultati dimostrano che l’assunto di cui sopra non trova riscontro nella realtà dei fatti. Ne emerge un quadro chiaro che dovrebbe spingere il legislatore a tenere conto di questi dati, a liberalizzare maggiormente il mercato delle armi e a rispettare maggiormente i diritti dei possessori di esse».
Il convegno di venerdì potrà dare indicazioni finalmente obiettive ai giornalisti presenti, affinché si possa restituire dignità e il valore che merita al comparto?
«Il convegno di venerdì 12 aprile a palazzo delle Stelline rientra in un percorso di impegno che porto avanti ormai da anni, al fianco di una comunità di persone perbene, di appassionati, di cacciatori, di sportivi, di possessori legali di armi e di produttori che meritano un supporto concreto di fronte al sentimento “anti armi” che va contrastato con decisione. È una battaglia di giustizia e di libertà: il convegno di venerdì servirà a mettere in chiaro il nostro pensiero, ciò che abbiamo fatto concretamente e l'impegno che verso questo comparto non verrà mai a mancare».