In occasione del centenario della costituzione dei reparti degli arditi, un omaggio alla loro arma principale, insieme al pugnale: il petardo Thevenot. Come funzionava?
In occasione del centenario della costituzione dei reparti degli arditi, un omaggio alla loro arma principale, insieme al pugnale: il petardo Thevenot.
Come il nome stesso indica, il petardo Thevenot era di progettazione e produzione francese, ma fu prodotto anche in Italia. Quelli di produzione francese si riconoscevano perché sulla placca di sicurezza il punto nel quale appoggiare il pollice era costituito da un disco rosso, mentre su quelli prodotti in Italia era costituito da una stella, contornata dalla scritta “col pollice destro coprire questa stella”.
Il petardo Thevenot era del tipo offensivo, ovvero il raggio d’azione delle schegge e dell’effetto concussivo dell’esplosione era inferiore rispetto alla distanza di lancio da parte del soldato. In pratica, le schegge perdevano la loro azione offensiva entro i 10 metri dallo scoppio, mentre un lanciatore di media bravura poteva proiettare il petardo tra i 25 e i 35 metri. In questo modo, chi lanciava il Thevenot poteva farlo allo scoperto, durante la fase d’assalto, e non necessitava di un riparo, come invece era necessario per gli ordigni di tipo difensivo (per esempio la Sipe). Sempre per questo motivo, cioè per consentire il lancio allo scoperto durante l’attacco, il congegno di scoppio era del tipo a impatto e non a tempo. In questo modo, il petardo scoppiava non appena toccava terra, senza alcun ritardo. Lo scopo di questo petardo era sì quello di colpire il nemico, ma soprattutto quello di stordirlo, confonderlo con il fragore degli scoppi e l’onda d’urto dell’esplosivo.
Il petardo Thevenot è, fondamentalmente, una lattina cilindrica di 62 millimetri di diametro e 132 millimetri di altezza, realizzato in lamiera stagnata (latta) e verniciata di colore grigioverde. Alle due estremità presenta tre tappi a vite, destinati a consentire l’inserimento del detonatore, del percussore con la sua molla e della carica di scoppio, consistente in 170 grammi di Echo. Il peso totale dell’ordigno era di 400 grammi. Su un lato era presente la grossa placca di sicurezza, fermata in posizione mediante una coppiglia a “U”.
Si impugnava il petardo nella mano destra, appoggiando il pollice in corrispondenza del riferimento sulla placca, per tenerla ferma. Si sfilava con l’altra mano la coppiglia di sicurezza, provvista a tale scopo di un anello, e si lanciava il petardo. Lungo la traiettoria, la placca si staccava, srotolando la fettuccia di tessuto di sicurezza, collegata a un traversino destinato a tenere in sito il percussore. Sul lato opposto era presente una seconda sicura inerziale, costituita da una placchetta tenuta in posizione per mezzo di un cilindretto riempito di sabbia, liberato sempre dallo svolgimento della fettuccia durante la parabola.
L’ordigno, però, essendo in realtà uno dei primi della sua specie, risentiva di alcuni difetti intrinseci, tutto sommato difficilmente eliminabili senza una revisione radicale della struttura: primo fra tutti, la pericolosità del percussore che, allo scoppio, non si disintegrava ma sovente veniva proiettato tutto intero, quindi con pericolosa forza e velocità, proprio in direzione del lanciatore, a meno di non adottare una tecnica di lancio assolutamente impeccabile; in secondo luogo, un sistema di accensione a impatto che, però, non era effettivamente “universale”, ovvero non funzionava con identica efficacia con qualsiasi angolazione di caduta dell’ordigno. Anche in questo caso, era necessario curare con attenzione la posizione di lancio della bomba, per assicurare l’effettivo scoppio. Precauzioni non sempre attuabili nella bolgia infernale della battaglia, ma che se non seguite scrupolosamente potevano costare un prezzo carissimo. Dalle memorie dei testimoni dell’epoca (Salvatore Farina, Le truppe d’assalto italiane, Roma 1938), si apprende che l’addestramento al lancio del petardo Thevenot da parte degli arditi, “aveva lo scopo di abituare l’assaltatore al tiro curvo, facendo cadere la bomba perpendicolarmente al detonatore”. La prima fase di lancio statico era seguita da una fase dinamica, a coppie di soldati e quindi per squadre, “abituando le coppie a lanciarsi a grande velocità verso la parabola discendente del petardo, in modo che ciascuna coppia venisse a trovarsi a breve distanza dal punto di scoppio, onde evitare di rimanere colpita dai percussori dei petardi, che venivano proiettati all’indietro con violenza”.
Del petardo esisteva anche una versione fumogena-incendiaria che, in virtù del notevole fumo generato dall’accensione del fosforo contenuto all’interno, aveva notevoli pregi tattici nell’azione d’assalto. Nel libro “Le truppe d’assalto italiane” c’è un passo emblematico sull’utilizzo del petardo fumogeno nella tecnica per la cattura di un nido di mitragliatrice: “La coppia del caposquadra, giunta a circa 200 metri dalla mitragliatrice, eseguiva il lancio di alcuni petardi fumogeni per accecare l’arma automatica, il quale lancio, nel contempo, serviva come segnale d’inizio della manovra aggirante. Mentre una coppia, strisciando sul terreno, avanzava frontalmente contro la mitragliatrice continuando il lancio dei petardi fumogeni per mascherare l’aggiramento che veniva compiuto dalle rimanenti coppie al comando del caposquadra, queste, giunte a brevissima distanza di fianco all’arma, si lanciavano alla sua cattura. Il tiratore della mitragliatrice austriaca, accecato dal fosforo che in densissima cortina lo avvolgeva, era costretto a sospendere il fuoco, dando così modo alle coppie aggiranti di avanzare indisturbate”.