Lite violenta tra fratelli: legittimo il ritiro del porto d’armi

Il Tar del Lazio, in una recente sentenza, ha ritenuto legittimo il ritiro del porto d’armi in capo a un cittadino dopo una lite violenta con il fratello, anche se le reciproche querele erano poi state ritirate

Con sentenza n. 21615 del 1° dicembre 2025, la sezione prima ter del Tar del Lazio ha respinto il ricorso di un cittadino che si è visto revocare il porto di fucile per uso venatorio, dopo che era stato oggetto di una querela per lesioni sporta da parte del fratello, con il quale si era verificata una lite violenta. Il provvedimento di revoca del porto d’armi è intervenuta nonostante le reciproche querele tra i fratelli fossero state successivamente ritirate.

I giudici hanno ritenuto legittimo l’operato della pubblica sicurezza, argomentando che “Il rivestire l’autorizzazione alla detenzione delle armi carattere eccezionale trova il proprio fondamento nella prevalente esigenza di incolumità di tutti i cittadini, da ritenersi prioritaria rispetto all’interesse del privato al rilascio del titolo, essendo la possibilità di autorizzare l’uso di armi da parte dei privati conseguentemente improntata alla logica della massima cautela e del massimo rigore (Cons. St., III, n. 65/2020), rispetto alla quale la posizione dei privati, soprattutto con riguardo all’uso delle armi per attività di tipo ludico e non per difesa personale, risulta necessariamente cedevole. Occorre, quindi, ai fini della titolarità della licenza del porto d’armi, che i soggetti interessati offrano la completa e perfetta sicurezza circa “il buon uso” delle armi stesse e ciò al fine di evitare qualsiasi dubbio o perplessità sotto il profilo dell’ordine pubblico e della tranquilla convivenza della collettività (ex multis, Cons. Stato sez. III, n. 4868/2019), postulando il concetto di affidabilità richiesto dalla disciplina in materia la contestuale presenza di una condotta assolutamente irreprensibile del richiedente e di un assoluto equilibrio psicofisico dello stesso. La materia della detenzione e del porto di armi è disciplinata, per quanto di interesse ai fini della presente causa, dagli articoli 11 e 43 del r. d. 18/06/1931, n. 773 (TULPS). In particolare, l’art. 11, ai commi 2 e 3 del TULPS dispone che “Le autorizzazioni di polizia possono essere negate a chi ha riportato condanna per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico, ovvero per delitti contro le persone commessi con violenza, o per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, o per violenza o resistenza all’autorità, e a chi non può provare la sua buona condotta. Le autorizzazioni devono essere revocate quando nella persona autorizzata vengono a mancare, in tutto o in parte, le condizioni alle quali sono subordinate, e possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono a risultare circostanze che avrebbero imposto o consentito il diniego della autorizzazione”. L’art. 43 comma 2 del TULPS, norma quest’ultima richiamata anche nel provvedimento impugnato, prevede infine che “la licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi”. Il concetto di affidabilità richiesto dalla disciplina menzionata postula inter alia il concorso di una condotta assolutamente irreprensibile del richiedente e di un assoluto equilibrio psicofisico dello stesso. In particolare, l’art. 43, comma 2 del TULPS consente alla competente Autorità, in sede di rilascio o di ritiro dei titoli abilitativi, di valutare non solo la capacità di abuso delle armi da parte del privato, ma anche l’assenza di affidabilità per la commissione di fatti (pure se estranei alla gestione delle armi, munizioni e materie esplodenti) che comunque non rendano meritevoli di ottenere o di mantenere la licenza di polizia (Cons. Stato, III, n. 3879/2016) e non diano adeguata garanzia di non abusare delle armi, sulla base di un giudizio connotato da ampia discrezionalità. La latitudine della discrezionalità sottesa ai provvedimenti inibitori materia di armi riduce la rilevanza dell’onere motivazionale posto a carico dell’Amministrazione, giacché è sufficiente che nei provvedimenti siano presenti elementi idonei a far ritenere che le valutazioni dell’Autorità non siano irrazionali o arbitrarie, sfuggendo invece al sindacato di legittimità l’apprezzamento amministrativo relativo alla prognosi di non abuso delle armi da parte del soggetto che ne sia possessore (cfr. Cons. St., VI, n. 6508/2023) purchè questo sia basato su elementi concreti e non su mere congetture, rispettando criteri di adeguatezza istruttoria, veridicità fattuale, completezza valutativa, logicità, ragionevolezza, proporzionalità e partecipazione procedimentale. È perciò necessaria e sufficiente l’esistenza di elementi che fondino una ragionevole previsione di un uso inappropriato (cfr. Cons. St., III, n. 4334/2017; T.A.R. Piemonte, III, n. 161/2025), secondo un giudizio prognostico, dovendo e potendo la valutazione dell’Amministrazione trovare fondamento in circostanze attuali e concrete, chiaramente esplicitate nella motivazione del provvedimento, dalle quali sia possibile evincere la sussistenza di un rischio di abuso delle armi – o, in negativo, la mancanza di garanzia sul loro corretto uso – da parte del privato o comunque di non affidabilità, evincibili da fatti e comportamenti che non necessariamente debbono raggiungere la soglia del disvalore penale. Calando tali coordinate nella fattispecie in esame, non emergono profili di illegittimità del gravato provvedimento di revoca del porto d’armi, il quale trova idoneo fondamento nei fatti che hanno formato oggetto di denunzia querela – irrilevante essendo la successiva sua remissione ed archiviazione del procedimento penale – dai quali è emersa una situazione di conflittualità familiare che ha dato origine a comportamenti reattivi giunti fino all’aggressione fisica, che costituiscono ragionevole indice di non affidabilità nell’ambito di un giudizio prognostico volto ad una tutela preventiva ad anticipata della sicurezza e della incolumità pubbliche. Il rilievo da annettere ai fatti materiali prescinde dalla loro eventuale valenza penale, trattandosi di valutazioni attinenti ad ambiti diversi e basate su distinti presupposti, con conseguente irrilevanza della intervenuta remissione della querela da parte del fratello del ricorrente, della successiva archiviazione del procedimento penale e dell’assenza di carichi pendenti in capo al ricorrente, restando comunque intatta la valenza del fatto storico attinente a situazioni comportamentali significative quanto ad affidabilità. Le licenze di porto d’armi, in quanto fondate su valutazioni discrezionali di affidabilità del richiedente da parte dell’Autorità di pubblica sicurezza, possono infatti essere denegate o revocate sulla base di fatti e circostanze che, pur non avendo rilevanza penale, indicano un rischio potenziale di abuso nell’uso delle armi, da solo sufficiente per l’adozione di un provvedimento limitativo, avendo le relative valutazioni natura prognostica e preventiva in quanto volte a prevenire rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il provvedimento impugnato trova quindi adeguata giustificazione in un episodio che, seppur isolato, è idoneo a rappresentare un indice attuale di inaffidabilità soggettiva del ricorrente nell’ambito dell’ampio margine di discrezionalità di cui gode l’autorità di pubblica sicurezza a fronte di una condotta del richiedente ragionevolmente incidente sulla sua affidabilità”.