Dalla base delle Nazioni Unite, il Generale di Divisione Luciano Portolano, Force Commander della missione Unifil, ci aggiorna sulla precarietà dell’area e sui risultati raggiunti dal contingente italiano. La zona meridionale del Paese, controllata da Unifil, è un’oasi di calma apparente circondata da un territorio inquieto. A Nord, scontri sanguinosi hanno da poco coinvolto le forze armate libanesi (Laf) contro l’Isis, alle porte di Tripoli e lungo la frontiera orientale con la Siria, nei dintorni di Arsal. A Sud, continuano le annose diatribe con Israele sulle violazioni della linea di ritiro, la cosiddetta Blue line. In tutto il paese ribolle l’insofferenza verso la presenza massiccia di rifugiati siriani e palestinesi disseminati in campi profughi e insediamenti spontanei. Unifil continua sulla strada del perseguimento dei propri obiettivi: monitorare il cessate il fuoco con Israele, incrementare le capacità delle forze armate libanesi e supportare la popolazione civile. Tuttavia la missione sta cambiando postura, adeguandosi silenziosamente al mutare dello scenario politico-militare.
Luciano Portolano, agrigentino, 54 anni, è il terzo generale italiano che, dal 2007, ottiene dall’Onu il comando di Unifil. Figura di grande prestigio internazionale, ha già comandato missioni in Macedonia, Kosovo, Iraq e Afghanistan. In giugno ha ricevuto la Legion of merit, la più alta decorazione americana per un militare alleato.
Generale, secondo le ipotesi più pessimistiche, il Libano offrirebbe al Califfo Al Baghdadi uno sbocco sul Mediterraneo. Ritiene plausibile il rischio di un invasione da parte dell’Isis e, in tal caso, che ruolo potrebbe ricoprire il contingente Unifil?
“Il fenomeno Isis è una minaccia globale e non è esclusa la possibilità che anche il Sud del Libano possa essere coinvolto. Tuttavia, al momento non abbiamo nessuna indicazione di elementi, o cellule che potrebbero minacciare la nostra area di responsabilità. Secondo le regole d’ingaggio previste dalla risoluzione 1701 dell’ONU i peacekeapers di Unifil hanno unicamente il diritto all’autodifesa e all’intervento per la protezione di civili inermi. Se un nuovo scenario richiedesse di cambiare l’identità della missione, questo potrebbe avvenire solo dopo un intervento politico-diplomatico a livello Onu, con l’accettazione di tutti i 38 Paesi che già contribuiscono alla missione”.
Che genere di problemi causa il gran numero di rifugiati presenti sul territorio?
“Attualmente, a una popolazione di 4 milioni di libanesi, si aggiungono 2 milioni di profughi siriani. Le tensioni derivano da fattori economici, sociali, religiosi. Soprattutto dopo i combattimenti di Arsal, dove sono stati catturati e decapitati alcuni membri delle Laf, i rifugiati siriani, che in un primo tempo erano stati accolti benevolmente, hanno iniziato a essere mal tollerati dalla popolazione locale. In alcune municipalità è stato indetto il coprifuoco e, con attività di volantinaggio, i siriani sono stati invitati a tornare nel loro Paese. Noi non rimaniamo a guardare: ho dato mandato ai comandanti che operano sul terreno di intensificare le attività di prevenzione – seppure in modo discreto, per non allarmare la popolazione – con l’introduzione di pattugliamenti appiedati di militari nostri e delle Laf e tramite l’intensificazione delle attività in aiuto alla popolazione civile”.
Fin da aprile, il Parlamento libanese non riesce a eleggere il nuovo Capo di stato…
“Il seggio presidenziale vacante crea un vuoto di potere in un Paese già frammentato da una serie di partiti e confessioni diverse che si spartiscono il potere. (Fin dagli anni Trenta, il Presidente è un cristiano maronita, il Primo ministro è un musulmano sunnita, e il Presidente del Parlamento un musulmano sciita, nda). Tuttavia, durante gli ultimi accordi con il primo ministro Tammam Salam e con il presidente del Parlamento Nabih Berry ho sentito parole di incoraggiamento volte a risolvere la problematica e a garantire una rapida elezione del Presidente del Libano”.
Alcuni giorni fa gli Stati Uniti hanno dato un segnale di apertura sul supporto finanziario al Libano, questo nonostante il legame storico che li lega ad Israele. Cosa significa?
“Il Libano è un vero ago della bilancia per la completa stabilizzazione in tutto il Medioriente. L’elemento di migliore coesione interna è costituito dalle Laf, che si sono distinte con valore nel tentativo di garantire la stabilità nel nord del Paese e nei dintorni dei campi profughi palestinesi. Nonostante i rapidi progressi, le Laf necessitano però di un sostegno esterno. Per questo, il progetto International support group ha da poco donato loro, con un accordo firmato tra Francia e Arabia Saudita, tre miliardi di dollari. A questi si aggiungerà un miliardo di dollari erogato dagli Stati Uniti. Ciò dimostra che l’intera comunità internazionale, compresi gli Usa, è consapevole della necessità di migliorare le capacità delle Laf per mantenere la calma in un’area che ha davvero bisogno di un attimo di respiro”.
Possiamo dire che, grazie alla mediazione italiana, finalmente Israele e Libano “si parlano”?
“Direi di sì. Disponiamo di uno strumento unico che consente alle due nazioni di relazionarsi: il meeting tripartito. In una palazzina situata proprio al confine tra i due Paesi, con cadenza quasi mensile, ha luogo una riunione tra i rappresentanti israeliani e libanesi, alla presenza del Force Commander di Unifil. Fino a poco tempo fa, israeliani e libanesi, pur trovandosi faccia a faccia all’interno della stessa stanza, comunicavano fra loro solo per l’interposta persona del Force Commander. Da tre mesi circa, dietro mio invito, hanno finalmente accettato di dialogare direttamente fra loro, sempre, ovviamente, con la mia mediazione. Non mancano dispute e controversie, spesso incentrate su piccole problematiche, la cui mancata soluzione però potrebbe avere ripercussioni strategiche immense. La nuova modalità di dialogo è stata comunque un passo avanti ed ha riscosso grande soddisfazione presso le Nazioni Unite”.
Quale messaggio vorrebbe mandare agli Italiani?
“Fra le attività di peacekeeping, Unifil è una missione che costituisce un vero esempio, a livello di Nazioni Unite. La situazione è estremamente delicata: un comportamento sbagliato fin da parte del nostro ultimo soldato può avere ripercussioni gravissime; in questo senso, nessuno dei nostri militari ha mai commesso errori. Da sempre ci prepariamo in anticipo per garantire il massimo rispetto degli usi, delle tradizioni e delle religioni locali. Vorrei dire agli Italiani: siate essere orgogliosi dei riconoscimenti e degli apprezzamenti che i nostri soldati, impegnati nei diversi ruoli, riescono a ottenere in questo paese grazie a una miscela vincente fatta di fermezza e flessibilità”.
Andrea Cionci (foto di Antonio Masiello)