Le donne vicine a un uomo armato corrono rischi più alti: lo afferma sulla pagina Facebook del Partito democratico la senatrice Valeria Valente. Ancora una volta il dibattito sugli omicidi in famiglia non riesce a prescindere da forte connotazione preconcetta
Nel commentare un terribile fatto di cronaca, nel quale un cittadino legale detentore di armi ha sparato alla moglie, ai due figli (uccidendone uno e ferendo gravemente l’altra), al cane e ha poi rivolto l’arma verso se stesso, la senatrice del Partito democratico Valeria Valente si lascia andare a una dichiarazione che ha destato amarezza e sconcerto tra gli appassionati: “Una cosa però è certa: le donne vicine ad un uomo armato corrono rischi più alti. È inaccettabile, ma è così. Dobbiamo iniziare a porci seriamente questo problema”.
La base di partenza, apparentemente, sono come al solito i dati a senso unico delle associazioni per il disarmo. E ancora una volta, apparentemente, la scelta della politica è quella di guardare con grande attenzione al dito, anziché alla luna.
Il fenomeno del femminicidio in Italia è, purtroppo (sottolineiamo purtroppo) un problema complesso, che l’impoverimento finanziario del nostro sistema economico e la convivenza forzata H24 legata al cosiddetto lockdown può indubbiamente aver inasprito. Ciò premesso, è opportuno evidenziare che, nonostante il lockdown da marzo a giugno, i dati del Viminale relativi agli omicidi commessi tra il 1° agosto 2019 e il 31 luglio 2020 evidenziano un calo complessivo degli omicidi rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente (278 contro 334) e, nonostante appunto la situazione anomala e fortemente conflittuale del lockdown, un piccolo calo anche negli omicidi commessi in ambito famigliare (149 contro 152).
Al di là di questo aspetto, non può essere sottovalutata anche l’evidente sperequazione relativa al fatto che, a fronte di un raddoppio delle chiamate al numero telefonico antiviolenza e stalking 1522 nel periodo del lockdown, secondo quanto riportato dall’Istat è calata in modo sensibile (dal 16,6 al 12,9 per cento) la percentuale di vittime che abbiano presentato denuncia alle forze dell’ordine. Questi elementi ovviamente non hanno la pretesa o la presunzione di riassumere il problema, bensì semplicemente di evidenziarne le molteplici e complesse sfaccettature, che rendono difficile una semplificazione manichea come quella che si vorrebbe rappresentare. C’è, però, purtroppo di più.
Il passato recente evidenzia anche in modo piuttosto netto (tragicamente) che l’indisponibilità di un’arma legalmente detenuta non ha purtroppo fermato la mano del femminicida o dell’omicida famigliare determinato a compiere l’insano gesto: emblematici negli ultimi anni i casi di cronaca di Fausto Filippone e Deborah Ballesio (caso, peraltro, due volte significativo perché in tal caso la vittima era legale detentrice di armi e l’omicida aveva invece un’arma illegale).
Gentile senatrice Valente, il femminicidio è un atto terribile che deve essere contrastato efficacemente, nessuno più di lei può saperlo, visto che presiede una commissione di inchiesta proprio su questo orrendo fenomeno. Liquidare tuttavia la questione scaricando la colpa sui legali detentori di armi, a fronte di una incidenza tra il numero totale (oggi stimato in circa 4 milioni di cittadini) di essi e il numero di femminicidi commessi con armi legalmente detenute che non lascia spazio a interpretazioni di comodo, è quantomeno sconfortante e grave, per non dire offensivo. I margini di miglioramento della normativa in materia di armi ci sono senz’altro e alcune iniziative già in atto (sulle quali, sia chiaro, la categoria degli appassionati non ha alcunché da obiettare, a patto che risultino sensate e praticabili) possono contribuire a contenere ulteriormente i fatti di cronaca in questo senso. Non può, però, essere accettabile che il punto di partenza della riflessione sia una criminalizzazione superficiale e offensiva di una categoria di cittadini. E ci scusi tanto.