Se ne parlava già da un po’, adesso c’è la prova documentale, fornitaci dalla Guns trade di Sant’Ilario d’Enza (Re): sulla questione delle armi “simil militari”, il ministero dell’Interno ha fatto un parziale dietro-front. Come è noto (e come vi abbiamo raccontato sul fascicolo di luglio di Armi e Tiro), il ministero dell’Interno ha deciso di chiedere alle aziende che intendono produrre o importare armi di “somiglianza militare” tutta una serie di adempimenti, per consentirne la catalogazione. Gli adempimenti consistevano in: “presentazione presso il Bnp di Gardone Val Trompia (Bs) del prototipo dell’arma e dei disegni tecnici quotati relativi alla scatola di scatto e dei suoi componenti, le cui quote dimensionali dovranno risultare inferiori a quelle delle armi di uso militare; presentazione, sotto propria responsabilità penale di mendacio, di una dichiarazione dalla quale risulti che l’arma che si intende produrre o importare è di esclusiva progettazione civile; indicazione degli accorgimenti tecnici adottati dal fabbricante/importatore al fine di impedire la intercambiabilità della scatola di scatto o dei suoi componenti con quelli di un’arma da guerra; i caricatori di detta tipologia di armi devono contenere esclusivamente 5 cartucce per costruzione e non devono essere intercambiabili con quelli militari, a tal fine i relativi punti di attacco dovranno essere diversi da quelli di questi ultimi”.
Fin dal principio avevamo evidenziato l’assurdità soprattutto di quest’ultimo obbligo, visto che tale adempimento non è tra l’altro previsto né per le armi già catalogate, né soprattutto per le armi demilitarizzate (trasformate cioè da armi da guerra ad armi civili). Con fulminea decisione (vogliate cogliere la delicata ironia…), dopo soli otto mesi di attesa, i titolari delle aziende interessate dalla richiesta di catalogazione di tali tipi di armi sono stati nuovamente contattati dal ministero: “Si fa riferimento alla procedura che devono porre in essere i produttori o gli importatori di armi di derivazione militare (ma anche solo somiglianti a quelle militari) preliminarmente alla presentazione dell’istanza di catalogazione (Cccca nelle sedute del 23 e 24 marzo 2011). Al riguardo, si rappresenta che per quanto riguarda i caricatori di detta tipologia di armi, sarà sufficiente che questi contengano esclusivamente 5 cartucce per costruzione non dovendosi più tenere conto, quindi, della prescrizione relativa alla loro non intercambiabilità con quelli militari che imponeva che i relativi punti di attacco fossero diversi”.
Quindi, ricapitolando: la commissione fa una richiesta assurda alle aziende; c’è chi fa notare (primi tra questi anche noi…) che si tratta non solo di una richiesta irrealizzabile, ma anche e soprattutto sperequativa nei confronti di altri modelli di armi correntemente in commercio; la commissione lascia marcire le pratiche per oltre un semestre, e quindi alla fine provvede. E adesso i mesi di mancato guadagno, chi li rimborsa? E si badi bene che non è affatto detto che con l’abolizione del catalogo nazionale queste questioni diventino di lana caprina!
Ecco il commento della Guns trade: “Il cosiddetto Catalogo, grazie alla Commissione consultiva Centrale per il controllo delle armi, nell’ultima decina d’anni si è appropriato di una preoccupante autonomia “legislativa” producendo delle determinazioni che hanno spesso cagionato gravi ripercussioni sulla corretta interpretazione e attuazione delle leggi in materia. È sotto gli occhi di tutti gli esperti non di parte, infatti, che la soppressione del catalogo non andrà a vantaggio delle presunte lobby, ma che porterà trasparenza amministrativa a vantaggio di tutti, ivi comprese le autorità di ps che potranno finalmente reprimere o arginare anomali fenomeni finora consentiti dal catalogo stesso. In ogni caso l’eliminazione del Catalogo non farà altro che portare l’Italia a un maggior livello la certezza del diritto applicando, finalmente, quanto preveduto dalle normative italiane ed europee esistenti”.
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