Le immagini dell’operatore di polizia locale aggredito e disarmato a Milano hanno fatto il giro del web e hanno ovviamente scatenato le reazioni e i commenti di tutti, soprattutto degli appassionati ed esperti del mondo delle armi e del tiro.
Purtroppo, lo si dica subito, quanto accaduto ha a che fare solo in minima parte con i temi legati al porto e all’uso delle armi. Persino con il tema, tanto caro a chi scrive, della ritenzione e anti-sottrazione dell’arma, conosciuto a livello globale con la definizione di weapon retention.
Vi spieghiamo perché, come sempre cercando di studiare gli episodi di vita e gli incidenti del passato nel tentativo di imparare qualcosa di utile per il futuro, ipotizzando correttivi nelle condotte dove dovesse servire.
Il fatto
Stando a quanto riferito dalla primissima cronaca, una pattuglia della polizia locale composta da due operatori in borghese si sarebbe portata in zona Navigli per intervenire in una situazione di atti di vandalismo.
L’operatore ripreso nel video sarebbe dunque sceso dall’auto e si sarebbe qualificato. Fatto sta che il video in circolazione sul web riprende l’operatore con la pistola in pugno circondato dal branco a distanza ravvicinatissima.
In una diversa ripresa, sembra che la pistola gli cada di mano e il fatto di chinarsi a raccoglierla concede l’occasione al branco per aggredirlo fisicamente. Qualcuno gli strappa poi il cappello dalla testa e lui risponde esplodendo un colpo in aria a scopo di avvertimento.
In ogni caso, ne nasce una colluttazione prolungata in cui alcuni aggressori hanno da subito puntato al controllo della pistola dell’operatore. Come è ovvio, l’attenzione di tutti i presenti si è completamente accentrata sull’arma, con l’operatore che ha tentato allo strenuo di non mollarla e il branco che ha fatto di tutto per togliergliela di mano.
Durante la colluttazione “è partito” poi un altro colpo di pistola, per fortuna scaricatosi a terra senza danno per nessuno, dopo di che l’operatore ha perso definitivamente il controllo dell’arma, che è finita sotto un’auto.
I colpi non “partono”
Questa riflessione si impone e va premessa a tutto, perché il concetto è centrale in questa come in altre situazioni: le armi non sparano da sole e i colpi non “partono”. Occorre l’avverarsi di diverse condizioni, ovviamente dipendenti dal modello e dalle condizioni di porto, che si riassumono nell’avere una cartuccia camerata, nell’aver rimosso eventuali sicure e nel provocare una pressione sulla leva del grilletto.
È chiaro che durante una colluttazione in cui più persone si contendono violentemente il possesso di una pistola molte di queste manipolazioni possono avvenire involontariamente e occasionalmente. Dunque ciò che va prevenuto è il crearsi stesso di una simile situazione. Ma andiamo con ordine.
Perché gli operatori di polizia locale portano un’arma?
Perché la Legge 7 marzo 1986, n. 65, “Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale”, all’art. 5, che tratta delle Funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale, di pubblica sicurezza“ prevede al comma 5 che “Gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono… (omissis) portare, senza licenza, le armi, di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti… (omissis).
Dunque la legge-quadro di riordino del servizio di polizia locale prevede quale condizione per il porto delle armi che gli operatori ricevano la qualifica di agenti di pubblica sicurezza.
Ma qual è la finalità per la quale agli agenti di pubblica sicurezza è data facoltà di portare le armi?
È dichiarata espressamente dall’art. 73 del Regolamento per l’esecuzione del Tulps (R.D. 6 maggio 1940, n. 635) il quale stabilisce, tra l’altro: al comma 2, “Gli agenti di pubblica sicurezza, … (omissis), portano, senza licenza, le armi di cui sono muniti, a termini dei rispettivi regolamenti.”; al comma 4, “La facoltà di portare le armi senza licenza è attribuita soltanto ai fini della difesa personale”.
Quindi, riassumendo, l’operatore di polizia locale può ricevere la nomina di agente di pubblica sicurezza e può così svolgere funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica sicurezza, servizi durante i quali può portare un’arma per la propria difesa personale.
L’osservazione non è banale, perché ogni volta che un agente esplode un colpo di pistola siamo costretti a chiederci se, in quel frangente, vi fossero le circostanze per cui lo stesso era costretto a difendere la propria persona.
Le premesse per sparare si possono quindi riassumere nella necessità di difesa personale. E quelle per estrarre un’arma e farla comparire in uno scenario? Sono le stesse esigenze di difesa personale o vi sono casi in cui è consentito e/o consigliato avere un’arma in pugno a prescindere dalla necessità di difendersi?
Partiamo dall’esame dei colpi esplosi sui Navigli dunque, in questo caso, del primo dei due, che risulta sparato in aria a scopo intimidatorio.
Il colpo in aria no!
In generale, le forze di polizia portano un’arma per esigenze di difesa personale e di sicurezza pubblica, con una serie di sfaccettature concrete e giuridiche che non possiamo affrontare qui e che, però, sono state in qualche modo riassunte nel 2008 dall’allora Capo della polizia Antonio Manganelli con la circolare n. 559/A/2/752.M.2.5/2182 del 30 giugno 2008, occasionata dal tristemente famoso “caso Spaccarotella”.
Con quella circolare il Capo della Polizia e della Sicurezza Pubblica, dopo aver affrontato numerose tematiche giuridiche nel tentativo di circoscrivere con la maggior precisione possibile i casi di legittimo utilizzo dell’arma, afferma riassuntivamente che “L’uso delle armi da fuoco, anche nei casi eccezionali in cui è legittimato dalle norme vigenti, deve costituire l’extrema ratio, cui il pubblico ufficiale può ricorrere solo quando non sia possibile alcun’altra misura di coazione fisica meno rischiosa e sempre con gradualità e in proporzione agli interessi in conflitto”.
Dedica, poi, un interessante lettura alla prassi del colpo in aria. “Una considerazione particolare va riservata alla prassi, divenuta piuttosto frequente, degli spari a scopo intimidatorio. Tale procedura, di per sé non esclusa dalla legge, è tuttavia da ritenere anch’essa una estrema soluzione quando non sia possibile ricorrere ad altri strumenti di dissuasione meno pericolosi, per l’alto rischio di recare danni a terzi estranei, a causa di proiettili vaganti, specialmente se lo sparo avviene in luoghi affollati, ad alta densità abitativa o di notte, oppure nel caso in cui si perda il controllo dell’arma con il pericolo di attingere accidentalmente innocenti passanti o, anche, lo stesso autore del reato.
In proposito non vanno sottovalutati i profili di responsabilità che possono insorgere in capo all’agente operante per le eventuali lesioni provocate, sia pure involontariamente, come pure la possibilità che lo sparo, nel caso di errore nella valutazione dei fatti, inneschi un meccanismo di reazioni di vario tipo, che possono anche essere di risposta al fuoco, da parte di chi ritenga di essere ingiustamente aggredito”.
Il Capo della polizia individuava quindi con estrema chiarezza i due motivi principali per cui è arrivato a sconsigliare l’esplosione di colpi a scopo intimidatorio, non potendola vietare in radice: vi è un alto rischio di danni collaterali, soprattutto nei centri abitati e nei luoghi affollati; vi è il rischio di scatenare reazioni nei presenti.
Il primo motivo è evidente e non necessita certo di esempi. Il secondo, invece, merita approfondimento. Come reagisce un soggetto alla vista di un’arma? E come reagisce all’esplosione di colpi in aria a scopo intimidatorio?
Manganelli ipotizzava il rischio, specificamente individuato, che un soggetto potesse sentirsi minacciato e potesse reagire, magari addirittura sparando a sua volta.
Ben può darsi, però, che il soggetto che si intendeva far desistere da un comportamento non sia armato: come reagirà?
Il mondo delle probabilità si dividerà ai suoi occhi in due: potrà scommettere sul fatto che l’operatore gli sparerà, e allora desisterà dalla sua condotta. Oppure potrà scommettere sul fatto che l’operatore non sparerà, a maggior ragione dato che in quel momento probabilmente la sua incolumità non è minacciata in modo diretto e attuale.
Già, tutto questo perché – è bene ribadirlo – ci troviamo al di fuori di casi in cui la vita dell’operatore è minacciata. Potrebbe però arrivare a essere minacciata subito dopo, anche a causa dell’escalation che lo stesso ricorso all’arma può generare!
Soprattutto tenendo presente che nell’Italia del 2022 nessuno sarà portato a prevedere un intervento armato da parte delle forze dell’ordine, a maggior ragione se non si trovano nella situazione di doversi davvero difendere nell’immediato.
Allora quando è opportuno estrarre un’arma? Quando, in sostanza, vale la pena di far comparire un’arma in uno scenario e cosa comporta?
Un vecchio adagio dice che “la pistola è come il portafoglio: se la estrai è perché hai messo in conto di poter essere costretto a usarla. Altrimenti non si fa la mossa…”.
Cosa significa? Significa che introdurre un’arma in uno scenario può essere indispensabile per salvare sé o altri o, ancora, per interrompere un’azione criminosa sacrificando la salute – o la vita – altrui, in un bilanciamento di interessi tale per cui l’intervento armato fa salvo un bene superiore, come ad esempio l’ipotesi in cui l’operatore dovesse essere costretto a sparare ad un soggetto per salvarne diversi altri.
Altrimenti avremo la comparsa di un’arma all’interno di una situazione in cui da un lato si è già messo in conto che non la si userà, dall’altro però ben potranno impossessarsene e farne uso altri, proprio contando sul fatto che, dall’estrazione in poi, l’attenzione dell’operatore sarà rivolta in gran parte proprio a cercare di non perdere il controllo dell’arma stessa…
Le solite “5W”
Allora la mente va alla pianificazione ed alle modalità di esecuzione dei servizi, che tanto giovamento traggono dall’applicazione della regola delle “5W”, vale a dire dal dare risposta alle domande che in inglese cominciano proprio con la lettera W.
Cosa dobbiamo fare? Chi siamo? Dove opereremo? Quando lo faremo? E ancora, quanti saremo? Qual è la finalità dell’intervento? E quindi cosa ci serve? Come potremo farlo? E se non funziona? E chi troveremo? Come reagirà? E così via, fissando l’obiettivo e prevedendone a cascata le modalità di esecuzione.
Forse, ragionando in questo modo, si potrebbe arrivare a pensare che un servizio teso a prevenire o interrompere il compimento di atti vandalici vedrà la presenza di numerose persone, giovani o giovanissime, non per forza manifestamente pericolose.
Come pensiamo di farle desistere? Qualificarsi e intimare di interrompere le condotte è senz’altro l’approccio giusto. Ma se non dovesse funzionare?
Proprio la tipologia di illecito su cui è intervenuta la pattuglia in borghese e il profilo tipico degli autori ci danno l’ulteriore spunto per parlare più in generale del livello di sicurezza delle nostre città.
La sicurezza urbana
Cosa sta accadendo alle nostre città? E cosa sta accadendo ai nostri giovani? Non è un mistero che i fortissimi flussi migratori degli ultimi anni abbiano proiettato in Italia un numero enorme di persone, attirate senza per contro garantire loro la possibilità di trovare di che vivere. Con l’ulteriore problema del culture clash per cui i problemi di adattamento non riguardano solo le concrete possibilità di sostentamento, che possono ovviamente avere una portata criminogenetica, ma anche la diversa interpretazione ed il diverso angolo visuale che viene dato alle regole della convivenza.
La stessa sera del 15 gennaio a Nichelino, città-dormitorio alle porte di Torino, oltre 200 giovanissimi, dei quali oltre la metà di origine nordafricana, si sono sfidati in una maxi-rissa tra bande, dando prova di aver quasi in toto raggiunto ormai la impenetrabile illegalità delle banlieu parigine. Le maxi-risse dell’area di Roma fanno ancora discutere, così come gli stupri di massa in piazza Duomo a Milano la notte di capodanno.
Non solo immigrazione, però: in generale, negli ultimi anni stiamo assistendo a una progressiva delegittimazione generalizzata delle Forze dell’ordine, sintomo di un più generale scollamento degli abitanti di un territorio nei confronti delle sue istituzioni.
Tristemente il sindaco di Milano ha osservato come molti dei partecipanti all’aggressione del vigile avessero raggiunto Milano da fuori area… E dunque? L’accaduto è meno grave? Resta una gara “di campanile” volta a scollarsi di dosso quante più responsabilità possibile? Come a dire che non fa niente se capita, basta che la colpa non venga data a me?
I temi coinvolti, purtroppo, sono invece cosa seria e preoccupante e sì, dipendono in larga misura da chi amministra la cosa pubblica. Basterebbe ricordare che la stessa Legge Regionale 1° aprile 2015, n. 6, dedicata proprio ai servizi di Polizia locale, reca “Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana”.
A nostro modo di vedere, i temi sui quali abbiamo inteso accendere i riflettori appartengono esattamente alle strategie di gestione della sicurezza urbana, di cui il Sindaco è titolare, altroché!
Quando mai un ragazzo avrebbe pensato di aggredire un operatore di polizia solo fino a 20 anni fa? E quando mai sarebbe arrivato addirittura a mettere le mani sulla sua pistola? Solo un criminale conclamato e abituale, forse, l’avrebbe fatto. E diciamo forse perché il criminale incallito avrebbe anche temuto per la risposta armata dell’operatore al solo tentativo.
Ora invece ci troviamo di fronte a un gruppo di ragazzi che danneggiano e vandalizzano, ma che non sono criminali abituali e feroci, eppure non esitano a contrastare un’operazione di polizia e a disarmare un agente.
Ecco, il dato preoccupante è proprio questo: quale società esprime ragazzi, sicuramente sopra le righe ma non criminali feroci, eppure pronti a malmenare e disarmare un agente?
Già, perché un criminale avrebbe sicuramente tenuto l’arma per sé, utile per ulteriori future azioni criminose. Non dimentichiamoci che numerose aggressioni ad appartenenti alle forze di sicurezza avvengono al solo scopo di sottrarre loro l’arma per futuri impieghi criminosi.
Weapon retention, l’ultima irrinunciabile spiaggia
E poi sì, l’operatore della sicurezza deve ricevere solida preparazione anche in tema di ritenzione e tecniche di protezione e anti-sottrazione dell’arma, che rappresentano proprio l’extrema ratio.
La valutazione delle caratteristiche della fondina, gli atteggiamenti preventivi e, infine, anche le tecniche di protezione dell’arma da tentativi di presa, sia in fondina sia una volta estratta, sono certamente competenze che, oggi più che mai, devono appartenere all’operatore armato della sicurezza, tanto pubblica quanto privata.
Non si contano ormai, infatti, i casi in cui un soggetto della più svariata natura tenti, nelle situazioni più disparate, di togliere l’arma a un operatore. Crescendo di interazioni fisiche come quella di Milano, momenti di identificazione o immobilizzazione che offrono lo spunto per una reazione del soggetto fermato; situazioni che partono come violente e situazioni che partono come a bassa pericolosità, che poi cresce in escalation; criminali senza scrupoli come giovani spavaldi, maschi come femmine: il rischio di un tentativo di sottrazione deve ormai essere considerato e mitigato con le opportune contromisure, tra le quali le tecniche di protezione sicuramente rivestono un ruolo importante.
La sicurezza urbana, però, è un’altra cosa, così come altra cosa è la gestione della cosa pubblica in modo così miope da non vedere che, in 20 anni di gestione scellerata, si avrà creazione di una società che manifesta un livello di insofferenza per le regole e per chi è chiamato a farle rispettare come quello che stiamo riscontrando.
Se per un addestramento in tema di weapon retention possono bastare ore, per la creazione di una società sana ci vogliono decenni. Gli stessi che ci vogliono per crearne una malata.