Forze dell’ordine e uso dell’arma: benvenuti in Italia…

Una recente ordinanza della Cassazione porta alla ribalta le condizioni grottesche nelle quali si trovano a dover operare le nostre forze dell’ordine quando si tratta di dover far uso dell’arma d’ordinanza. A questo punto tanto vale mandare a casa tutti quanti e lasciare spazio all’anarchia…

L’ordinanza “incriminata” della quale vogliamo parlarvi in questa occasione in effetti è stata emanata dalla Cassazione civile (terza sezione, n. 26057 del 23 settembre 2024), ma si ricollega in realtà a una questione prettamente penale che fa riferimento diretto a due articoli “cardine” del codice penale, cioè il 52 (legittima difesa) e il 53 (uso legittimo delle armi).

Questi i fatti, così come desumibili dal testo della stessa ordinanza: un uomo viene fermato da una pattuglia mentre “vaga” di notte per le strade di una città, con una valigetta in mano. Mette a terra la valigetta, estrae una pistola e la punta contro gli agenti, che sono sull’auto di servizio. Questi ultimi si allontanano per mettersi in sicurezza, fino a una distanza di circa 20 metri, si riparano dietro gli sportelli aperti ed estraggono le pistole. L’uomo, pur abbagliato dai fari dell’auto, in ginocchio sulla carreggiata, continua a puntare l’arma verso i poliziotti, i quali, constatato che “non aveva cessato il proprio contegno minaccioso”, aprono il fuoco esplodendo otto colpi, uno dei quali risulta mortale.

Qui si chiude la cronaca e si apre la fantascienza: il giudice penale prende in considerazione i presupposti delle due cause di giustificazione previste dal codice penale, per l’appunto la legittima difesa (art. 52) e l’uso legittimo delle armi (art. 53), ma di fatto giudica “in concreto, sia il pericolo per la vita e l’integrità fisica dei poliziotti, sia quello per la tutela dell’ordine e dell’incolumità pubblici, molto limitati se non inesistenti”. Quindi valuta che sussista l’eccesso colposo nelle cause di giustificazione per la mancanza “del necessario requisito della proporzione tra la condotta offensiva e violenta dell’aggressore e la condotta difensiva e respingente dei pubblici ufficiali”. Quindi scatta la condanna per omicidio colposo, alla quale giocoforza si aggiunge la condanna al risarcimento del danno, la cui valutazione è rimessa (appunto) alla sede civile. Sede nella quale a questo punto, nel determinare il “quanto” dovrà essere versato ai parenti della vittima, si discetta se la valutazione fatta in sede di corte d’appello, che ha disposto il dimezzamento del risarcimento stabilito in primo grado tenendo conto della “incidenza causale del fatto colposo concorrente della vittima”.

Le motivazioni fornite dal giudice penale per giustificare la sua valutazione sull’insussistenza delle scriminanti fanno accapponare la pelle: “Il primo (la legittima difesa, ndr) perché a fronte della situazione in cui si era trovato l’aggressore (rannicchiato senza riparo in mezzo alla carreggiata e abbagliato dai fari dell’automobile dei poliziotti), questi ultimi erano invece riparati dagli sportelli blindati e avevano una perfetta visuale della sagoma dell’uomo; il secondo (l’uso legittimo delle armi, ndr), perché a causa dell’ora notturna non vi era traffico pedonale e veicolare ed era quindi impossibile che l’aggressore commettesse atti dannosi nei confronti di terze persone”.

Qui ci sarebbe da scrivere per settimane, in sintesi ci permettiamo di far notare i seguenti elementi:

  • Le auto adibite a servizio di controllo del territorio della polizia sono, è vero, parzialmente blindate, ma non lo sono completamente. In particolare, le portiere in sé e per sé sono blindate e, facendo scorrere verso il basso una apposita aletta, anch’essa blindata, è possibile avere copertura anche per i piedi e le caviglie. Tuttavia, i vetri degli sportelli hanno caratteristiche anti-sfondamento ma non sono minimamente antiproiettile. Ora, in tal contesto è chiaro che se l’operatore, oltre a riparare sé stesso, deve agire per interrompere l’azione minacciosa dell’individuo (per esempio puntando a propria volta l’arma d’ordinanza o quantomeno guardando cosa stia facendo), deve necessariamente uscire dalla protezione offerta dalla portiera, in tutto o in parte.
  • Il fatto che il soggetto con la pistola fosse “allo scoperto” e “abbagliato dai fari” non incide minimamente sulla sua pericolosità: poteva senza dubbio esplodere più colpi in direzione della vettura (proprio basandosi, paradossalmente, sulla posizione dei fari) senza necessariamente badare alla propria incolumità, perché magari animato da tendenze suicide, perché intossicato da sostanze stupefacenti, perché terrorista fondamentalista islamico eccetera. Tutte variabili non desumibili sul campo e nell’immediatezza.
  • Riguardo al secondo aspetto, una pistola utilizzata in un contesto urbano, non cessa di essere pericolosa nel momento in cui non vi siano passanti o veicoli: un proiettile è perfettamente in grado di perforare tapparelle, persiane e vetri delle finestre e risultare potenzialmente letale per chi si trovi all’interno della propria abitazione. E questo anche a distanze decisamente notevoli dal punto d’origine dello sparo. Pensando a un contesto cittadino, immaginiamo quanti e quali appartamenti potesse incontrare un proiettile genericamente diretto in orizzontale o con limitato angolo di sito. 

La conclusione è sconfortante: anche in un caso apparentemente “di scuola”, nel quale gli operatori hanno aperto il fuoco a fronte di una minaccia diretta, immediata e continuata, in sede di giudizio saltano fuori eccezioni del tutto svincolate dalla realtà dei fatti e ancorate su supposizioni del tutto teoriche e prive di supporto scientifico.

A questo punto la conclusione può essere una e una sola: gli operatori delle forze dell’ordine devono girare disarmati e, nel momento in cui vi siano casi anche plateali di minaccia per la propria o altrui incolumità, devono semplicemente andarsene e lasciar fare al criminale o pazzo di turno.